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Recovery Plan – Piccole lezioni dal passato

Un piccolo saggio di fanta-cronaca-politica dal nostro associato e amico Marco Dal Pozzo, ingegnere delle telecomunicazioni nella vita reale, e grande curioso di storia e storie, di politica e del ruolo delle persone dentro la società in tutti “gli altri” momenti che gli sono concessi per studiare e informarsi. Prendendo spunto da due testi del passato, redatti da esperti di quei tempi, in cui si parla di economia, storia, politica e società; Dal Pozzo ritaglia una figurina,  artigianale ma molto rappresentativa,  del nostro Paese prima e dopo “il boom economico”  e l’arrivo del benessere e delle macchine di calcolo. Un’istantanea per riflettere su alcuni passaggi che hanno concorso in modo determinante alla ricostruzione e al rilancio dell’economia del nostro Paese grazie all’arrivo – più o meno indolore e inconsapevole – di cospicui fondi “esteri”.    Dentro all’efficace ricostruzione dei fatti realizzata dallo studioso abruzzese, nostro associato, traspaiono problematiche e temi tutti molto simili, per non dire uguali, agli scenari in cui ci stiamo muovendo “or ora”, nel dare corpo e poi corso e infine concretezza:  al Recovery Plan, ribattezzato alle nostre latitudini: “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”.  Milioni e milioni di euro – 40 soltanto per la transizione digitale, ad esempio – in arrivo sulle italiche pianure nei prossimi mesi. Pronti cotti e mangiati. Sempre che nel frattempo gli italici esperti degli italici governi siano stati in grado di redigere tali piani in un “europeese” corretto.  Sarà vera gloria? Intanto proviamo a non commettere gli errori del passato.

 

 

” L’ERP (European Recovery Program) consentì ai paesi europei di attuare una collaborazione continentale non effimera, e di avviare, tra l’altro, un efficiente sistema di pagamenti internazionali e costanti stimoli. L’azione di vari organismi internazionali per reinserire in un’economia cosmopolitica i paesi depauperati dal Covid-19 ebbe non poca importanza, nella ripresa europea e italiana dell’industria; ma senza dubbio l’importanza degli aiuti materiali fu decisiva”.

 

 

 

Chissà se fra una ottantina di anni potremo leggere questo in una nuova edizione del “libriccino” “Storia Recente dell’Industria Italiana”. Nel 1956 fu l’onorevole Roberto Tremelloni a produrre questo documento sui passi compiuti dall’industria italiana dall’Unità d’Italia. Tremelloni nasceva nel 1900. Secondo una strampalata proporzione potremmo dire che l’autore della futura seconda edizione “avrebbe oggi”, all’incirca,  una quarantina d’anni. Staremo a vedere.

 

Nel ‘56 Tremelloni, nell’apprestarsi ad entrare in pianta stabile nei Governi italiani di quegli anni, già protagonista della vita parlamentare nelle file del PSDI, scriveva questo a proposito del Piano Marshall (questa è la versione originale da cui abbiamo preso ispirazione in apertura):

 

 

 

“Il quadriennale Piano Marshall (o piano ERP, European Recovery Program, lanciato ad iniziativa degli Stati Uniti verso la metà del 1947 e attuato a partire dal 1948) consentì ai paesi europei di attuare una collaborazione continentale non effimera (nel 1948 si costituì l’OECE, ente della cooperazioni economica, da cui partì una spinta notevole ed un coordinamento della ripresa industriale), e di avviare, tra l’altro, un efficiente sistema di pagamenti internazionali (E.P.U.) e costanti stimoli alla liberalizzazione doganale.”

 

 

Facciamo un passo indietro nell’indagine storica del parlamentare PSDI, e portiamoci alle prime pagine del suo lavoro. Siamo ai primi decenni dell’Unità Italiana :

 

 

 

“Il carattere degli italiani parve, agli osservatori dei primi decenni dell’Unità, inadatto all’industria; più consono, invece, alle attività agricole e all’artigianato, dove meno si richiedevano attitudini ad un lavoro compiuto con una ripetizione monotona di gesti uguali, dove era talvolta necessaria la fantasia ma meno necessaria la precisione, dove ognuno si imponeva una disciplina da sé senza essere accasermato nella fabbrica. Siffatte caratteristiche dell’italiano frenarono, senza dubbio, nei primi decenni dopo l’Unità, l’espansione dell’industria; ma ne vietarono e consentirono successivamente particolari orientamenti negli indirizzi qualitativi, nelle preferenze di rami merceologici, e nella stessa forma aziendale.”

 

 

 

Un inizio che non fu agile anche per altre ragioni. Sentite ancora Tremelloni:

 

 

 

“Degli alti costi nella nascente industria italiana si lamenteranno subito tutti: gli imprenditori, per mostrare come la manifattura non possa reggere ai costi del mercato internazionale […].

La formazione dei nuovi imprenditori, sorti generalmente dalle classi umili, mette in luce individualità energiche e laboriose, ma ancor rozze: si vogliono subiti guadagni e si sdegnano le rassegnate aspettazioni degli agricoltori, ci si getta in una lotta concorrenziale senza esclusione di colpi, si vuol fabbricare di tutto, senza preoccuparsi della specializzazione. […] A ciò si aggiungono la deficiente struttura commerciale che rincara il costo della distribuzione, e le cause occasionate da un mercato della domanda ancor primitivo e diffidente.”

 

 

 

Questi, quindi, alcuni dei problemi incontrati dall’industria italiana negli anni della sua nascita, dopo l’Unità del Paese. Un percorso interrotto dalle due guerre mondiali, ma che proprio dopo i conflitti seppe sempre riprendersi. Per prendere, si sa, il volo a metà del secolo scorso. Gli anni del Boom. Narrati in letteratura e al cinema con grande maestria da molti nostri intellettuali e artisti.

 

Dopo la prima guerra mondiale e la crisi del ‘29 in Italia venne inaugurata una “politica autarchica” che non fu senza conseguenze. Questo è un altro estratto dal racconto di Tremelloni: a proposito della politica di autosufficienza del Paese

 

 

 

“i primi provvedimenti risalgono alla fine del 1934: ordinamento corporativo dello Stato, monopolio dei cambi, contingentamento delle importazioni, legge sulla limitazione dei nuovi impianti industriali, incentivi a produrre in Paese con succedanei locali ciò che si importava. Si ritieni, in sostanza, che un incremento del reddito nazionale si possa ottenere astraendo da un aumento di scambi internazionali: così, si altera profondamente la struttura stessa dell’industria italiana. Il lavoro viene applicato, in fase autarchica, ad attività meno redditizie, e quindi si favorisce l’espansione di queste ultime ritardando anche il processo di meccanizzazione delle altre. Contemporaneamente la mancanza di una effettiva pressione sindacale operaia – così viva e vivace nel primo ventennio del secolo – influisce in questa fase a comprimere i salari reali e l’ascesa dei consumi.”

 

 

 

Del momento storico successivo alla seconda guerra mondiale, invece, tra i tanti passi che inquadravano uno scenario complesso e in evidente fibrillazione, prendiamo queste righe:

 

 

 

“E un sia pur lentissimo processo di trasformazione si manifesta anche nell’industria del vestiario, dove il passaggio verso l’abito di serie è assai meno facilitato dal gusto del consumatore italiano di quanto non lo sia in altri paesi”.

 

 

 

Ecco, quindi, un piccolo sommario delle resistenze che l’industria italiana ha incontrato nei suoi primi cento anni, nelle fasi post Unità e post belliche:

 

Sono elementi che sembrano denotare una sostanziale attitudine “antifordista” (individualismo, no al prodotto di serie, fantasia, creatività) della domanda e dell’offerta alle fasi di spunto dell’Industria italiana (dopo l’Unità, dopo la prima e poi dopo la seconda mondiale). Un’attitudine che poi, nonostante una non spiccata inclinazione all’organizzazione della produzione e delle vendite, non impedì la definitiva crescita economica successiva alla seconda guerra mondiale.

 

Quali furono le leve di questa crescita?

 

Oltre agli ovvi benèfici effetti del Piano Marshall, lo scenario a metà degli anni ‘50 secondo Tremelloni e lo studio dei numeri di cui disponeva all’epoca della pubblicazione del suo libro, era questo:

 

 

 

“Nel sessennio dal 1950 ad oggi – ricordiamolo: siamo nel 1956 – l’Italia ha attraversato infatti uno dei periodi di più vigorosa ascesa della sua produzione industriale […]. Il livello della produzione industriale, al principio del 1956, è ormai doppio di quello antibellico. Ma in particolare dal 1950 al 1955 il saggio annuo medio di aumento oscilla tra il nome e il dieci per cento.

Non si tratta d’una semplice dilatazione delle quantità prodotte: l’industria influì infatti in modo preponderante nel migliorare il reddito nazionale. […] La disponibilità complessiva di energia, si porta al doppio del 1938. La graduale intensificazione di più difficili e qualificati scambi internazionali porta, nel contempo, il commercio estero a valori e quantità più alti. […] L’industria è anche agevolata dall’aumento dei consumi interni (che, come è lecito aspettarsi, dopo i momenti di crisi furono di beni atti a soddisfare bisogni primari).

 

 

 

Poi, a proposito della “popolazione lavoratrice”:

 

 

 

“I modi di lavorare, la retribuzione e le condizioni sociali di questa popolazione lavoratrice sono completamente mutati. E’ probabile, sebbene sia difficile raccogliere dati certi, che il salario reale orario dell’operaio sia aumentato come da uno a due e mezzo tra il 1871 e oggi, mentre le ore quotidiane di lavoro si sono frattanto ridotte di un quarto o di un terzo. Nel 1903 si contavano ancora 155 mila addetti alle industrie di età inferiore ai 15 anni, cioè il 12% del totale di addetti: oggi probabilmente la percentuale è inferiore all’1%, Fino al 1914 i miglioramenti delle condizioni del lavoratore si devono unicamente, o quasi, a uno spontaneo e vivace movimento sindacale; col 1919 si accentua una legislazione sociale vastissima, che rende via via obbligatorie forme di sicurtà capaci di ridurre la vasta gamma di rischi che circondava la vita del lavoratore. Oggidì circa un decimo del reddito del Paese è redistribuito attraverso le forme assistenziali e previdenziali obbligatorie.”

 

 

 

Quindi, ai fattori frenanti evidenziati in precedenza, rispondono dei fattori di slancio che fanno decollare  l’industria italiana dopo la seconda guerra mondiale:

 

Lo studio di Tremelloni ci fa certamente comprendere quali furono gli scogli per fare impresa in Italia e, se possibile, metteva allora (e mette adesso) in guardia da quali potessero essere dei fattori di rischio per l’impresa stessa una volta avviata. Di sicuro, “per intraprendere” occorreva dotarsi di una buona capacità organizzativa che sapesse guardare al mercato, evitando (pensiamo a chi doveva intraprendere) di “guardarsi allo specchio” in un atteggiamento miope – che qui abbiamo definito antifordista – e (ci riferiamo ora a chi offriva la propria opera) di dare per scontati diritti che erano tutti ancora da garantire.

 

 

 

A questo punto lasciamo che Roberto Tremelloni ceda il testimone a Lorenzo Soria che, poco più di venti anni dopo, nel 1979, scriveva un saggio molto interessante sulla crisi della Olivetti dal titolo “Informatica: un’occasione perduta – La divisione elettronica dell’Olivetti nei primi anni del centrosinistra”.

 

 

 

“Nel periodo tra il ‘48 e il ‘61 il tasso di crescita del prodotto nazionale lordo in Italia era stato tra i più alti del mondo. Erano gli anni della ricostruzione postbellica prima e del cosiddetto miracolo economico in seguito. A partire dal 1962, però, l’economia iniziò a dare segni di stanchezza. In quell’anno il tasso di crescita fu del 6,2%, contro il 7,1% del 1961, nel ‘63 del 5,5%; poi, nel ‘64, fu il crollo: 2,7%. Certo, non era la crescita zero o quella sotto zero dei giorni nostri, ma era la congiuntura. E con essa, ovviamente, il brusco calo della domanda, anche dei prodotti Olivetti.

A Ivrea questa stagnazione del mercato non era stata però prevista. […] L’Olivetti oltretutto disponeva di prodotti eccellenti da un punto di vista tecnico e poteva inoltre contare sui mercati esteri dove fatturava il 70% della sua produzione […]. in molti di questi mercati si verificò un brusco calo della domanda.”

 

 

 

Mancarono, quindi, delle capacità organizzative che sapessero guardare a quello che stava succedendo (la congiuntura, diceva Soria) e potessero intervenire senza che la storia continuasse indisturbata verso ciò che poi sarebbe stato inevitabile.

 

E i sindacati? In occasione dello smantellamento di Borgolombardo le sezioni aziendali Fim-Cisl e Fiom-Cgil (siamo nel Marzo del 1964), scrivevano (in un contesto in cui si interrompeva l’idillio tra le parti della Olivetti come “azienda sociale”):

 

 

 

“Questo avvenimento è particolarmente preoccupante per tutti i lavoratori del settore elettronico, nel momento in cui vengono sempre più confermandosi le notizie del passaggio della maggioranza del pacchetto azionario alla Fiat e della cessione del Laboratorio di ricerche elettroniche e della rete commerciale della Divisione elettronica a un grande gruppo internazionale, da cui conseguirebbero mutamenti di indirizzo tecnico, di organico e di condizioni interne, cui nessuno può rimanere indifferente”.

 

 

 

Quel passaggio, com’è noto, si consumò a favore della General Electric (è il 31 Agosto del 1964 e in un comunicato dalla direzione Olivetti alle maestranze della Divisione Elettronica si legge della costituzione di una nuova società italiana, la Olivetti-General Electric s.p.a. Il nuovo complesso – diceva sempre il comunicato – assumerà un importante ruolo nell’industria europea delle apparecchiature elettroniche per la elaborazione dei dati). Solo allora, quando ormai i giochi erano fatti, l’azione sindacale si fece più incisiva e cominciò a preoccuparsi non soltanto del mantenimento dei posti di lavoro, ma anche di una visione strategica.

 

 

 

“Non sono sufficienti – diceva un comunicato del mese di Settembre dello stesso anno – per la Fiom le assicurazioni relative al mantenimento delle attuali condizioni normative e salariali dei lavoratori interessati, ma siamo di fronte a problemi più vasti di sviluppo e di progresso sul piano economico generale, che non possono non interessare il sindacato e i lavoratori. In questa direzione la Fiom riconferma l’assoluta esigenza di un valido intervento dello stato, che affronti in termini di interesse pubblico l’avvenire dell’intero settore elettronico […]”

 

 

 

Quanto ai diritti acquisiti, iniziò una stagione molto dura che vide la direzione giocare al rinvio e concedere solo incontri informali ai lavoratori; una stagione che ebbe spesso sbocco in scioperi. L’avventura stava ormai finendo, sotto il silenzio degli organi governativi: per Giulio Andreotti (industria), per Emilio Colombo (tesoro), per Guido Carli (Banca d’Italia), di problemi alla Oge non ce n’erano. La crisi invece avanzava: nel 1968 la Olivetti cede il pacchetto alla GE; nel 1970 la GE vende la vecchia Divisione Elettronica della Olivetti, diventata “Information System” alla Honeywell.

 

Alla vecchia Olivetti intanto, mentre Soria consegna il suo lavoro all’editore, arriva Carlo De Benedetti. Ma i problemi rimangono. Sono problemi di carattere:

 

Nelle pagine conclusive del suo lavoro, infine, Soria denunciava la mancanza di integrazione tra il “Programma finalizzato per l’elettronica” (un piano tra quelli di riconversione industriale sulla falsa riga dei cosiddetti “Piani di calcolo” approvati in altre nazioni europee ed extraeuropee) e la ricerca universitaria.

 

 

Se dovessimo valutare con la lente offertaci dal racconto di Tremelloni l’esperienza della Olivetti, potremmo dire che hanno concorso alla sua crisi e al suo impoverimento tanti degli aspetti che hanno ostacolato la crescita industriale in Italia nei primi decenni dell’Unità e nelle stagioni immediatamente successive alle guerre mondiali. Potremmo così “ri-dire” che la Olivetti cade:

 

La storia della Olivetti è un emblema che possiamo utilizzare per parlare della crisi di tutti i settori economici, che il Covid ha purtroppo aggravato. Ci piace l’idea che tra qualche generazione si potrà raccontare degli effetti benefici del Recovery Plan così come Tremelloni ci ha raccontato quelli del Piano Marshall; per adesso ci dobbiamo accontentare della suggestione proposta in apertura di questo excursus.

 

Perché questo avvenga, però, non si dovranno fare gli errori del passato. Usando la lente di Tremelloni, quindi, potremmo dire che, perché il Recovery Plan produca effetti, oltre a:

 

 

bisognerà (riprendiamo le leve post Unità e post belliche dell’industria) anche:

 

Ci avviamo alla riflessione conclusiva.

 

Se la storia della Olivetti è l’emblema della crisi attuale dell’era Covid e il Piano Marshall rappresenta il tanto atteso Recovery Plan, allora potremmo provare ad aggiungere anche che:

  1. bisogna fare di tutto per evitare gli errori che hanno sempre rallentato (dopo l’Unità e dopo le guerre) o mandato in malora (caso Olivetti) l’industria italiana
  2. bisogna riproporre ciò che invece per l’industria è stato sempre da stimolo (riprendendo un po’ quello che è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale).

 

Ecco quindi come potremmo declinare i vari punti per far fruttare il Recovery Plan:

 

 

 

Vedremo cosa succederà tra qualche settimana. E poi non dite che non Vi avevamo avvisato ;)

 

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