Ricordi e memoria

Nel giorno della memoria, anche noi, vorremmo portare un infinitesimale contributo, a questo tema così importante. Gli spunti e le suggestioni che proveremo a tracciare, non attengono, ovviamente, al tema alto, quello della shoah, del genocidio perpetrato dai nazisti nei confronti dei più deboli, dei diversi,  e in particolar modo del popolo ebraico. Non siamo in grado, né rientra nelle nostre corde, prendere posizione su argomenti di questo spessore. Nel nostro piccolo vorremmo parlare di memoria e di digitale, di memoria e giornalismo, di memoria e di cultura del presente. Quando si pensa alla memoria vengono in mente i ricordi, vengono in mente le tradizioni, in prima battuta quelle orali, riportate di bocca in bocca e di generazione in generazione prima dell’invenzione prodigiosa della scrittura e poi della stampa che ci hanno permesso di “serbare” i nostri ricordi, le nostre tradizioni, la nostra storia. La memoria è scritta sui libri. Nelle biblioteche. Ma anche nelle pietre e nei monumenti. Nelle città. Dalle fondamenta ai tetti delle costruzioni, da quelle più antiche a quelle più recenti. La memoria, il ricordo, è dentro ciascuno di noi e in tutti gli strumenti, i supporti, i simulacri,  che via via con il passare del tempo e l’evoluzione tecnologica, abbiamo saputo costruire per riuscire a “mettere via”, a conservare:  il nostro agire, il nostro essere, i “trascorsi” dell’Umanità. Con l’arrivo della registrazione, il moltiplicarsi dei supporti, e poi la nascita di strumenti potenti come la radio prima e la televisione poi. Le pillole grandi e piccole di memoria si sono moltiplicate. I nastri, le bobine audio, e poi i filmati, i documenti audio video, hanno dato avvio ad una nuova fase di accantonamento della memoria. Quando poi infine è nata la rete,  e la società si è ritrovata improvvisamente interconnessa, la voglia e le possibilità di “mettere via”, serbare per i posteri:  ricordi, lezioni, vestigia, comportamenti, azioni, racconti, notizie, storie; sono diventate molteplici e multiple. I supporti si sono ampliati a dismisura, le tipologie di racconti e le narrazioni si sono fatte diverse e variegate, nei modi e nelle possibilità. L’epopea digitale ci aveva anche convinto per un lungo periodo che i supporti in cui avremmo salvato le nostre memorie digitali sarebbero durati tantissimo, quasi all’infinito. E allora via al processo di trasformazione – la digitalizzazione – degli archivi, delle biblioteche, delle emeroteche, in cumuli di byte, o mega, o tera byte. Trasformare le parole, i gesti, le immagini, i suoni,   in numeri;  e poi stivarli dentro supporti digitali, sembrava fosse il passaggio epocale, “quello definitivo”,  per acquisire il controllo e l’accesso sempiterno alle nostre memorie. Così non è stato, e anzi il problema delle memorie digitali e dell’invecchiamento,  e del bisogno di rinnovamento costante dei supporti,  per una corretta conservazione dei dati,  è divenuto ben presto un grande e irrisolto problema. Da una parte abbiamo acquisito una capacità davvero unica, trasformando i ricordi in numeri,  di raggiungere quasi in tempo reale qualunque tipo di contenuto archiviato digitalmente e poi  messo in rete. Dall’altra parte abbiamo però scoperto che questi supporti non durano in eterno. Ed è sorto il problema di come fare a conservare queste memorie sintetiche e digitali,  in modo affidabile. Alla luce dei fatti, abbiamo infine scoperto che i supporti digitali – ritenuti per lungo tempo indistruttibili – in realtà decadono quasi più velocemente dei vinili, dei nastri audio-video, dei libri stessi. La metafora della memoria eterna condivisa e indistruttibile che il digitale e poi la rete avevano evocato e reso possibile, si sta trasformando in un presente difficoltoso e sempre meno gestibile in modo intelligente e fruttuoso. Da una parte i contributi che l’Umanità diffonde di sé grazie a questi strumenti  si sono moltiplicati esponenzialmente, quasi all’infinito, dall’altra parte come raccontò il Professor Mario Rasetti durante un nostro appuntamento digit, l’Umanità vive “il tempo di raddoppio”:

 

 

 

… nel solo anno 2018 sono  stati prodotti (e registrati) tanti dati quanti ne sono stati prodotti nell’intera storia umana  fino al 2017.

Il tempo di raddoppio (ovvero il tempo di produzione e registrazione di una massa di dati doppia rispetto a quella presa in considerazione nella misurazione precedente) è stato quindi pari ad un anno nel 2018 ma continuerà in prospettiva a scendere in quanto, oltre ai dati prodotti dagli esseri umani, cresceranno esponenzialmente i dati prodotti dalle macchine.

… entro cinque o sette anni saranno in rete, oltre agli umani, 150  miliardi di dispositivi che interagiscono tra loro e con gli umani.

Per quanto sconvolgente possa apparire, in un futuro assai prossimo (5/7 anni) basteranno 12 ore per produrre tanti dati quanti ne sono stati prodotti nella precedente storia dell’umanità.

 

 

E dove sta e sarà la memoria degli uomini in questo tempo così diverso e particolare che è il nostro presente e futuro prossimo. Dove  piazzeremo le vestigia del passato, gli insegnamenti, le tradizioni, le parti di noi necessarie per conservare e progredire come popoli, nazioni e persone,  dentro all’eterno presente della nostra quotidianità. Non basteranno più gli scrigni in cui abbiamo conservato fino ad esso i nostri retaggi e le nostre perle rare: i musei, le biblioteche, i luoghi storici  custoditi e restaurati;   in questa epoca di rimescolamento globale,  di trasformazione e continuo cambiamento, servono nuovi strumenti ma anche nuove riflessioni, studi e approfondimenti,  per orientare e strutturare i nostri comportamenti nel conservare e gestire il passato, la memoria. Qualche anno fa, proprio qui su questa bacheca riportavamo una acuta riflessione sul tema della memoria da parte  del giornalista francese, studioso di problemi dell’informazione ed esperto di digitale, Frédéric Filloux: 

 

 

 

perché a Google sono così interessati all’ informazione giornalistica? Perché è stato mantenuto Google News  negli ultimi dieci anni, in tante lingue, senza ricavare un centesimo (non ci sono inserzioni in quelle pagine)?

 

La risposta viene dalla missione di Google come la grande memoria di Internet. Essere il numero uno nelle ricerche va bene ma non basta. Nel suo progetto di dominio dell’universo semantico, conquistare territori è centrale. In questo contesto un territorio potrebbe essere un ambiente semantico considerato decisivo nella vita quotidiana di tutti gli uomini, oppure uno con un alto potenziale di monetizzazione.

 

il gigante di Mountain View continua a presidiare il campo dell’ informazione giornalistica perché non può farne a meno, viste le sue mire imperiali sull’universo del web. E la cosa diventa ancora più importante alla luce del duro lavoro che Google sta facendo per la sua prossima transizione: trasformarsi da motore di ricerca a motore di conoscenza

 

 

Parole emblematiche, scritte la bellezza di 9 anni or sono: 2012. Una profezia divenuta realtà. Addirittura oltre la realtà, perché quello che le techno corporation,  e non solo Google,  sono riuscite a fare in questi nove anni è andato ben oltre le mire di controllo e di accesso al web già evidenti nove anni fa nelle strategie dei vertici della compagnia del motore di ricerca. Le porte della conoscenza e di conseguenza i luoghi della memoria sono sempre più percorsi obbligati e obbligatori. Sentieri sempre più stretti e angusti, sorvegliati a vista dai “cani da guardia”  – non della democrazia -  ma del potere e del controllo. Ma oggi noi vogliamo concentrarci sulla questione della memoria e dunque sul ruolo che la “diga” costituita dal portale di accesso alla rete che è Google, e dagli altri artifici realizzati negli anni dai potenti delle meta nazioni digitali,  hanno avuto e hanno  nei processi mnemonici dell’Umanità.  Che ne pensate? Abbiamo ancora libero accesso ai nostri ricordi? E’ forse possibile che il “filtro” onnipresente e imperscrutabile dell’algoritmo sia in grado di riportarci testimonianze, ricordi, e racconti del passato spuri e contaminati? Proviamo a vedere cosa ne pensano altri studiosi e scienziati:

 

 

Le interfacce tecnologiche dotate di coscienza non sono solo un argomento fantascientifico. Usiamo strumenti di ogni tipo per migliorare o modificare la nostra esperienza mentale del mondo: possono essere sistemi algoritmici, come le notifiche e le spinte sofisticate che gli smartphone possono attivare per incoraggiare i propri proprietari a fare più moto o a uscire in tempo per un appuntamento, oppure possono essere molto semplici, come il bastone che un cieco usa per orientarsi. Infatti, come dice Platone in un famoso brano del Fedro, la scrittura stessa è una tecnologia di questo tipo, tanto che il filosofo temeva che potesse diminuire le facoltà mentali di chi si affidava a essa invece che al potere della memoria e dell’intelletto. Così inizia la lunga storia di come l’umanità appalta la mente alle macchine: affidando pensieri e ricordi alla pietra, al papiro, alla litografia, alle registrazioni su cera, ai negativi fotografici, ai dischi fissi e ai servizi cloud. L’estensione della memoria umana nelle dimensioni tecnologiche ci permette oggi di ricordare molto più di quanto abbiamo mai potuto, sebbene alteri certe modalità del ricordo biologico incoraggiandoci a concentrarci su come accedere alle informazioni piuttosto che sulle informazioni stesse.

 

 

I ricercatori hanno dimostrato che l’uso di Google modifica l’uso della nostra memoria, un fatto che può confermare chiunque sia oltre i trent’anni: basta pensare a quanti numeri di telefono sappiamo a memoria adesso rispetto a quanti ne sapevamo prima di possedere il nostro primo cellulare. Lo stesso vale per la scrittura usando gli elaboratori di testi, per l’impatto dei social media sulla formazione dell’identità e così via. Sono piccole osservazioni dell’immane cambiamento, dei molti modi in cui la cultura digitale, la memoria e l’identità si stanno evolvendo via via che le nostre pratiche fondamentali di lettura, scrittura, conversazione e pensiero diventano processi digitali. Attraverso la plasticità del cervello e il mutare delle norme sociali, ci stiamo adattando per diventare più conoscibili per le macchine algoritmiche

 

(Ed Finn Cosa vogliono gli algoritmi)

 

 

 

Le ICT posseggono un genere di memoria che dimentica. Queste tecnologie divengono rapidamente obsolete, sono volatili e riscrivibili. Vecchi documenti digitali possono diventare inutilizzabili poiché la corrispondente tecnologia – si pensi al caso di lettori floppy o di vecchi processori – non è più disponibile. Vi sono milioni di pagine abbandonate su Internet: pagine che, una volta create, non sono state più aggiornate o modificate. All’inizio del 1998, la vita media di un documento non abbandonato era di 75 giorni. Ora, è di 45 giorni. È diventato comune fare esperienza della cosiddetta decadenza dei link (vale a dire, di link che rinviano a risorse online non più operanti). Il 30 aprile 1993, l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare (CERN) annunciò che il World Wide Web che aveva creato sarebbe stato accessibile a tutti senza costi di accesso. Vent’anni più tardi, per celebrare l’evento, un team del CERN ha dovuto ricreare la prima pagina web (con il suo URL originario, ecc.), perché non esisteva più. La nostra memoria digitale sembra tanto volatile quanto la nostra cultura orale, ma forse in modo ancora più instabile, poiché ci dà l’impressione opposta.

 

 

 

La memoria non è soltanto una questione d’immagazzinamento e di gestione efficiente, è anche una questione di attenta cura per le differenze significative e, quindi, di stabile sedimentazione di una serie ordinata di cambiamenti: due processi storici che sono, oggi, messi a rischio. Per esempio, Ted Nelson – un pioniere nelle ICT che ha coniato il termine “ipertesto” e “ipermedia” – ha concepito Xanadu in modo tale che le copie di vecchi file non fossero mai cancellate. Una pagina web che si aggiorna costantemente è un sito che non conserva memoria del proprio passato, e lo stesso sistema dinamico che consente di riscrivere migliaia di volte lo stesso documento rende altamente improbabile la conservazione delle versioni precedenti per un esame futuro. “Salva questo documento” significa “sostituisci le versioni precedenti”, per cui ogni documento digitale di qualsiasi genere è destinato a questa natura astorica. Il rischio è che le differenze siano cancellate, le alternative amalgamate, il passato costantemente riscritto e la storia ridotta a un perenne qui e ora. Quando la maggior parte della nostra conoscenza è nelle mani di tale memoria che dimentica, possiamo trovarci imprigionati in un eterno presente.

 

(Luciano Floridi La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo)

 

“Diversamente da un computer”, scrive Nelson Cowan, esperto di studi sulla memoria, docente all’Università del Missouri, “il normale cervello umano non raggiunge mai un punto in cui le esperienze non possono più essere fissate nella memoria; il cervello non è mai pieno.” Secondo Torkel Klingberg, “La quantità di informazioni che possono essere archiviate nella memoria a lungo termine è virtualmente infinita”. Inoltre ci sono prove del fatto che mentre costituiamo il nostro personale bagaglio di ricordi, diventiamo più intelligenti. L’atto stesso di ricordare – spiega la psicoioga clinica Sheila Crowell nel saggio “The neurobiology of declarative memory” – sembra modificare il cervello in un modo da rendere più facile apprendere idee e abilità nuove nel futuro.”

Non riduciamo le nostre capacità mentali quando acquisiamo nuovi ricordi a lungo termine. Anzi, le rafforziamo. A ogni ampliamento della memoria corrisponde un’estensione dell’intelligenza. Il Web fornisce un’integrazione opportuna e interessante per la memoria personale, ma quando cominciamo a usarlo come un sostituto di quest’ultima, tralasciando i processi interiori di consolidamento, rischiamo di privare la mente delle sue ricchezze.

 

(Nicholas Carr Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello)

 

 

Dunque il silicio non è infinito;  fra pochi anni saremo in grado in sole 12 ore di produrre più dati di quanto l’Umanità abbia fatto in tutta la sua storia; la rete è la nostra memoria? E Google è il tenutario di questa memoria?  Oggi ricordiamo molto di più ma non sono i significati a interessarci bensì le modalità di accesso alle informazioni. La nostra memoria si sta evolvendo, ma in una direzione bizzarra: diventiamo più conoscibili per le macchine algoritmiche.

Le moderne tecnologie  dell’informazione e della comunicazione posseggono un genere di memoria che dimentica facilmente le informazioni, è una memoria instabile e volatile. Una pagina web che si aggiorna costantemente è un luogo che non conserva memoria del proprio passato; il rischio è che il passato venga costantemente riscritto e la storia ridotta ad un perenne “qui e ora”. Una memoria che dimentica in continuazione,  rischia di imprigionarci in un perenne presente.

Il  cervello umano – diversamente da quello di un computer -  non è mai pieno; mentre costruiamo il nostro personale bagaglio di ricordi diventiamo più intelligenti. Ogni ampliamento della memoria umana corrisponde ad un’estensione dell’intelligenza.

 

Grazie della Vs attenzione e di essere arrivati fino a qui. Alla prossima ;)