La valorizzazione del trattamento dei dati ha conseguenze provocatorie per la produzione culturale. Come consumatori culturali, adesso valutiamo il significato di un testo in base ai suoi collegamenti piú che alla sua sostanza.
Figure di studiosi che hanno basato le loro carriere sul dirci che cosa ignorare quanto che cosa apprezzare, vengono sostituite da curatori che forniscono un servizio (o processo) continuo di cultura inclusiva e interconnessa.
La curatela; assembla pezzi in un modo che cattura l’attenzione, che trasmuta elementi disparati in una nuova esperienza avvincente. I grandi blogger fanno questo, cogliendo qua e là pepite di contenuto in siti apprezzati soprattutto per la loro produzione costante e tempestiva di un flusso mediatico.
In altre parole, la stessa logica di valore tramite un processo che governa il bitcoin sta ricostruendo anche altre forme culturali. Veniamo istruiti o influenzati da algoritmi e sistemi computazionali che elevano il processo allo stato di valore. Stiamo lentamente sostituendo il modello umanissimo del manoscritto, dell’attenzione lineare con una costante abbondanza di cultura, un’abbondanza simile a Netflix, che integra piú media, paratesti e strutture intellettuali, una nuvola di idee piuttosto che un flusso di coscienza.
Se uno voleva sostituire una guarnizione di un rubinetto o un hobbista cercava un nuovo tipo di vernice per i modellini aveva poche risorse a disposizione oltre ai circoli e ai negozi della sua zona e, per certi tipi di quesiti, le biblioteche. Prima di Internet, queste erano questioni private, non pubbliche. Una tale trasformazione è cosà profonda e cosà ovvia che è diventata invisibile anche a quelli di noi che ne hanno vissuto le fasi recenti
il giornalista e scrittore Karl Taro Greenfeld ha scritto sul “New York Times” a proposito della nostra tendenza collettiva a simulare un’alfabetizzazione culturale basandoci su paratesti e metadati:
Non è mai stato cosà facile fingere di sapere cosà tanto senza realmente sapere nulla. Raccogliamo particolari attuali e pertinenti da Facebook, Twitter o da avvisi di notizie via e-mail, e poi li rigurgitiamo. (…) Ciò che conta per noi, a mollo in petabyte di dati, non è necessariamente aver consumato questi contenuti in prima persona ma semplicemente sapere che esistono, e avere un’opinione in proposito, essere in grado di chiacchierarne.
Curatela e ignoranza. Potrebbero essere queste le parole d’ordine per decifrare questi passaggi così importanti del saggio di Finn – a nostro avviso - e comprendere in profondità la “transizione digitale” . La nostra società si è molto trasformata negli ultimi decenni – in modo più o meno cosciente – e i nuovi modelli culturali che ci ritroviamo a dover gestire dopo l’avvento del digitale sono altri da quelli precedenti. Alieni, nuovi e differenti. Il curatore di contenuti ha sostituito – o sta sostituendo – in modo quasi completo figure diverse del mondo della comunicazione e dell’informazione; figure professionali molto facilmente assimilabili a quelle del giornalismo. Ma - attenzione – il processo per avere senso ed essere compreso pienamente, non si deve limitare all’apertura o l’annessione – ad esempio nelle redazioni giornalistiche - di nuovi posti di lavoro e l’acquisizione di nuove professionalità – tecnicamente evolute – dentro a quelle stesse redazioni. Non è inserendo analisti dei dati, o esperti di programmazione, o ancora videomaker; che porteremo il digitale dentro alle nostre vite o ai nostri flussi produttivi. La filiera della produzione va ripensata e riconfigurata, per ogni attività , assimilando nuovo sapere e aggiungendo la consapevolezza di quello che vogliamo provare a ottenere. In altri termini e riferendosi al giornalismo: non è trasformando una newsroom in un sito web che comprenderemo e cavalcheremo il cambiamento. I dati sono mastodontici, e ingovernabili? Le notizie sono alla portata di chiunque? La guerra è dentro le case e gli schermi portatili di ciascuno di noi? Allora rendiamo quei flussi incessanti di contenuti qualcosa di plausibile, facciamo in modo che le persone siano nuovamente in grado di costruirsi una corretta opinione, fornendo loro gli strumenti e i contenuti selezionati per comprendere il senso di quello che vedono accadere dentro le piattaforme e sulle proprie bacheche online. Andiamo a discutere le “notizie” là dove le persone sono. Prendiamo spunto da tre definizioni cruciali per comprendere questo passaggio così come ce le porge il filosofo Jurgen Habermas nel saggio del 2013 intitolato “fatti e norme”:
Comunicazione pubblica
Nei processi pubblici di comunicazione ciò che conta non è soltanto (né soprattutto) la diffusione mass-mediatica
di messaggi, punti di vista e prese di posizione. Certo, soltanto un’estesa circolazione di messaggi comprensibili e interessanti può garantire una inclusiva partecipazione. Ma nella strutturazione dell’opinione pubblica è molto più importante la condivisione delle regole della prassi comunicativa. Solo così l’approvazione di temi e di contributi si sviluppa come risultato d’un dibattito più o meno esauriente, nel corso del quale vengono più o meno razionalmente discusse proposte, informazioni e ragioni. Il livello discorsivo della formazione dell’opinione, così come la “qualità †dei suoi risultati, dipendono in generale proprio da questo “più o meno†di razionalità nella deliberazione delle proposte, informazioni e ragioni, che dovrebbero essere le più esaurienti possibili. Perciò, non considereremo riuscita una comunicazione pubblica per il semplice fatto ch’essa produce “generalità †e inclusione; al contrario, si dovrà sempre giudicare in base ai criteri formali con cui un’opinione pubblica si è costituita e qualificata. Le strutture di una sfera pubblica manipolata dal potere escludono discussioni fruttuose e illuminanti. Nella misura in cui è quantificabile sulle caratteristiche procedurali della sua genesi, la “qualità †di un’opinione pubblica è una grandezza empirica.
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La sfera pubblica
…una “cassa di risonanza†per quei problemi che, non trovando soluzione, devono essere affrontati dal sistema politico. In questo senso, la sfera pubblica è un sistema di allarme dotato di sensori non specializzati, ma diffusi in tutto il corpo sociale. Inoltre, dal punto di vista di una teoria della democrazia, la sfera pubblica deve anche “amplificare†la pressione dei problemi. Deve, cioè, non soltanto percepirli e identificarli, ma anche tematizzarli in maniera convincente e influente, arricchendoli di contributi e “drammatizzandoli†perché siano recepiti e trattati dal sistema parlamentare. Essa deve cioè non solo percepire le questioni, ma anche problematizzarle in modo efficace. La sfera pubblica non può risolvere i problemi in base alle sue forze. Le sue limitate capacità devono però servire a controllare la loro successiva trattazione nell’ambito del sistema politico.
Opinione pubblica
opinione pubblica è, per un verso, il modo controverso in cui quest’ultima si forma e, per l’altro verso, l’ampiezza del consenso su cui poggia. Un’opinione pubblica non è mai rappresentativa in senso statistico. Essa non è un aggregato di opinioni individuali singolarmente registrate e privatamente espresse; in questo senso non va scambiata con il risultato dei sondaggi d’opinione.
(Habermas Fatti e norme)
Quanto sono precise, acute e accurate le considerazioni del filosofo tedesco, soprattutto se “spalmate” sul nostro presente “digitale”? Pensate a come si è evoluta la comunicazione pubblica dopo l’avvento dell’ecosistema e confrontate il nostro comune agire con i principi enunciati da Habermas, come quando dice ad esempio: “nella strutturazione dell’opinione pubblica è molto più importante la condivisione delle regole della prassi comunicativa. Non considereremo riuscita una comunicazione pubblica per il semplice fatto ch’essa produce “generalità †e inclusione”.  Come la mettiamo con il nostro modo attuale di comunicare? E con tutto lo “pseudo marketing digitale” che ci propinano ogni giorno schiere composite di guru e paraguru di non meglio precisata provenienza? E se poi ci volessimo spingere un poco oltre e guardare l’operato della “sfera pubblica”, così come lo spiega Habermas : “le limitate capacità della sfera pubblica devono servire a controllare la trattazione dei problemi nell’ambito del sistema politico”. E tanti saluti alla “democrazia diretta” e a quelle formazioni politiche che credono di aver capito il digitale e pensano di potersene servire per rendere “il mondo un posto migliore”, manco fossero tycoon tecnologici essi stessi, magari provenienti dal quella “valle del silicone” che sta in California. E per concludere, prima di averVi troppo annoiato, ci piacerebbe soffermarci sulla funzione – benedetta e fondamentale – dell’opinione pubblica, quella stessa che la “funzione giornalistica” deve preservare e tutelare alla massima potenza; per sottolineare ancora una volta le sacrosante - a nostro parere - osservazioni del filosofo tedesco che a questo proposito sostiene che: “un’opinione pubblica non è mai rappresentativa in senso statistico”. Attenzione per favore al valore dei dati, a quello che significano, a come e a chi viene chiamato ad interpretarli e all’uso che ne viene poi fatto. Nell’epoca dei dati, o meglio dei “big data”, continua ad essere fondamentale la visione di Habermas, che alla statistica antepone la cultura, il senso, l’interpretazione e non il peso dei numeri. Dentro a questo scenario ci piace inserire in conclusione della nostra riflessione alcuni altri estratti dal libro di Ed Finn in cui il professore americano ci ricorda quanto sia diverso - non migliore ne peggiore, ma diverso – il mondo, dopo la rivoluzione epocale in cui siamo incappati con l’introduzione del “digitale”; e quanto sia importante affrontare questo profondo cambiamento con il giusto atteggiamento e in possesso delle necessarie conoscenze. In una frase: in possesso di una corretta cultura digitale. Che non significa saper usare le macchine o avere nozioni di informatica o ancora, saper entrare in un programma, su una piattaforma o in un editor di testo. Lasciamo da parte tecnicismi e paraguru e avviciniamoci a questo mondo nuovo senza pregiudizi e idee precotte, e senza, soprattutto, l’idea di portare dentro il digitale le nostre vecchie e oramai obsolete, prassi analogiche.
Lo spettacolo del consumo culturale, l’atto pubblico di elaborare, giudicare e condividere, è la nuova economia culturale.
Leggere il sistema è diventato piú importante che leggere i contenuti che il sistema è stato realizzato per fornire. Al loro massimo, queste architetture di attenzione creano dei loro persistenti flussi di credenze, una sorta di blockchain di valore culturale. Siti come Wikipedia e persino le conversazioni pubbliche sui social media offrono un dettagliato flusso di transazioni che consente ai partecipanti di ripercorrere tutti gli interventi di una discussione (con la notevole eccezione che quasi tutte queste piattaforme, tranne Wikipedia, consentono la rimozione invisibile di queste tracce). Come per il bitcoin, il libro mastro pubblico dell’attenzione è completamente trasparente ma il calcolo umano e algoritmico che lo ha generato è oscurato. Le motivazioni dei contributori a Wikipedia o dei commentatori di Facebook possono essere difficili da cogliere ma la piattaforma stessa presenta un’apparenza di accessibilità democratica e uniforme(*)
*(Questa disparità ha creato le proprie opportunità di arbitraggio, come il bot Congress-edits su Twitter, che annuncia ogni modifica anonima a Wikipedia fatta da indirizzi IP del Congresso degli Stati Uniti: Ed Summers, Congress-Edits, 2014, in https://twitter.com/congressedits. Inoltre Wikipedia ha problemi con la sua oggettività teorica e le notevoli disparità demografiche della sua comunità editoriale, composta in gran parte da maschi bianchi)
il bitcoin, Wikipedia e persino i social media hanno una legittimità utopica, hanno davvero il potenziale per aggirare le strutture tradizionali, occasionalmente dispotiche per il controllo delle informazioni, dalla Primavera araba al rapido assemblaggio di voci d’enciclopedia dettagliate e obiettive sui principali attacchi terroristici. Lo spettacolo è collaborativo, trasformativo, vivo: promette di rendere il mondo intero leggibile e mutabile grazie all’onnipresenza dell’elaborazione. La cultura programmabile promette democrazia, responsabilità e chiarezza con il semplice tocco di un’icona.
Ma ovviamente il concetto algoritmico di estrazione di valore si basa su una grammatica arbitraria di azione
Sostituire la sfera pubblica con la sfera programmabile è in definitiva una sostituzione di una forma di lettura con un’altra: una nuova cornice idiomatica da apporre al mondo.
(Ed Finn Cosa vogliono gli algoritmi)
Ma la nuova cornice “idiomatica”, come la definisce Ed Finn, che apponiamo sul mondo, ci obbliga a mettere in campo capacità molto diverse di approccio culturale e di conoscenza, per riuscire a mettere a fuoco in modo corretto il suo rinnovato e diverso contenuto: il mondo stesso, post rivoluzione digitale.
Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)