L’ agenzia Reuters ha aperto una redazione nel mondo virtuale di Second Life, una comunità virtuale tridimensionale on-line creata nel 2003 dalla società americana Linden Lab e che ora ha oltre un milione di ”residenti”.
La ”testata” si chiama Second Life News Center .Un redattore ‘reale’, Adam Pasick, dedicherà alcune ore di ogni settimana, col nome di Adam Reuters, a questa nuova attività giornalistica fornendo agli abitanti e ai visitatori di Second Life articoli, video e notizie generate dal flusso della vita che si svolge nel mondo virtuale.
Come dire: game, set e partita. Parafrasando il linguaggio del tennis, sedici anni fa, eravamo già nel metaverso, e in quel particolare universo immateriale, c’erano pure dei giornalisti al lavoro, e che giornalisti. E il lavoro svolto dentro a quel metaverso dai giornalisti della prestigiosa agenzia aveva molta attinenza con quello reale, non era certamente una finzione. E nemmeno una scelta dovuta alla moda del momento. O forse sì? Visto l’andamento delle cose, e della nostra professione, viene da pensare che non fosse soltanto un’esigenza momentanea. Ma vediamo come era raccontata questa specifica attività giornalistica in quello stesso post del 2006:
“Potrà sembrare strano, dice Adam in un’ intervista a due colleghi della Reuters (vera), Kenneth
Li e Eric Auchard -, ma in questo lavoro non ci sono grandi differenze con quello del mondo reale. Parli con quante più persone puoi, leggi quante più cose puoi, trovi delle storie interessanti e le butti giù. Il fatto che siamo in un mondo virtuale, quando ti ci sei abituato, diventa molto simile al lavoro che ho fatto per anni”. Reuters ha creato anche una sorta di location virtuale – simile a quello che l’ agenzia possiede in Times Square.
Fra le prime notizie, quella relativa a un professore dell’ Indiana University, Edward Castronova, che ha vinto un premio di 240.000 dollari per aver creato un luogo virtuale basato sul mondo di William Shakespeare e la registrazione di alcune polemiche sull’ ipotesi di fissare una tassazione anche per l’ economia del “mondo virtuale”.
Era il 2006 e la dicotomia - sebbene inutile già allora – fra mondo analogico e mondo digitale, era ancora molto presente. Quando si ragionava di transizione era quasi impossibile non fare confronti. Del resto ancora oggi la maggior parte delle persone - anche molti esperti, o presunti tali – continuano a utilizzare questo trito e inutile approccio. Ma la questione posta dai colleghi della Reuters era invece già allora dirimente e avrebbe trovato ulteriori corrispondenze e conferme anche in altri campi del digitale. Peccato che il giornalismo e gli editori, Reuters a parte, nella maggior parte dei casi non se ne fossero accorti. Si continuava, e purtroppo in molti casi ancora si continua, a fare giornalismo come se “l’ecosistema” - in cui siamo immersi da decenni – non esistesse. Come se il rapporto fra fruitori e organi di informazione fosse ancora verticale. I giornali diffondono, le platee – più o meno globali – ascoltano e recepiscono. Ma niente è più così da tanti anni, e l’esempio della Reuters in second life doveva farci agire in modo diverso. Così come, anni dopo, un altro esempio fulgido, giunto da un’istituzione fuori dal mondo del giornalismo avrebbe dovuto farci suonare altri campanelli d’allarme. Ci riferiamo alla biblioteca pubblica di New York:
alla New York Public Library, si sono inventati un modo davvero particolare per agguantare i millennials o meglio, le generazioni ancora più giovani e farli diventare lettori di libri e di conseguenza loro “clientiâ€. Hanno inventato le book stories su Instagram.
L’iniziativa della NYPL coglie a nostro avviso un aspetto che nessuno sembra voler prendere in esame per davvero. Un aspetto che nessun guru o paraguru del marketing potrà mai risolvere, è che viene spiegato molto bene proprio dai responsabili della libreria pubblica di New York:
“Chissà se la gente in realtà leggerà un intero romanzo in questo formato (al contrario di un ebook), ma è uno sforzo accurato da parte della biblioteca per portare a leggere i libri là dove sono le personeâ€. Perchè è questo che è successo con la smaterializzazione del mondo, con la sua digitalizzazione, con l’avvento dell’era della disintermediazione. Le persone sono da un’altra parte ed è lì che dobbiamo cercarle.
Ma cosa ha a che vedere tutto questo con il giornalismo, qualcuno potrà chiedersi a questo punto. Molto, moltissimo, tutto. Permetteteci di replicare. E per aiutarci nella spiegazione aggiungiamo qualche altra notizia, più recente, e legata al tema, a nostro avviso. In una di queste news si legge ad esempio dei tentativi dei nostri giornali di fare giornalismo sui social. Un tipo di giornalismo non “di riporto”, bensì “originale e dedicato”. Arrivando alla triste, ma purtroppo scontata conclusione, che nessuno o quasi è ancora riuscito – fra i nostri editori mainstream – a posizionarsi in modo vincente dentro al “mondo digitale”. In quello stesso articolo vengono però citati alcuni singoli “professionisti dell’informazione” che hanno invece trovato una propria dimensione di successo dentro ai social, in particolare su Instagram. SegnateVi questa cosa da una parte, ne riparleremo fra breve. In un altro contributo di stampa che vogliamo segnalarVi si parla invece di “professionisti delle
“Nel corso dell’ultimo ventennio gli utilizzatori di internet sono passati da circa 800 milioni a quasi 5 miliardi.
In questo periodo – trainato dall’esplosione dei social e conosciuto come web2.0, o web2 – il nostro uso della rete è cambiato profondamente, diventando molto più intenso e pervasivo.
Tutto ciò non sarebbe stato immaginabile se non in un ecosistema ad accesso libero e gratuito retto, sostanzialmente, sulla pubblicità .
Il modello del “prodotto sei tuâ€, infatti, ha permesso a servizi e piattaforme di crescere a dismisura la propria base di utenti”.
Di aprirsi ai più giovani, ai meno tecnologici, ai cittadini dei paesi in via di sviluppo, riducendo al minimo le frizioni.
Se i servizi offerti da Myspace, MSN, Yahoo! o Facebook fossero stati a pagamento, nessuno vi si sarebbe probabilmente nemmeno iscritto.
Invece, l’internet dell’attenzione ha spalancato l’accesso a contenuti, informazione e servizi a chiunque nel mondo.
Le paroline magiche che tornano anche qui sono :“ecosistema”, “social”, e “piattaforme”, ed è proprio a questo punto che in tutte queste riflessioni si innestano i giornalisti, o meglio il giornalismo, e la sua “funzione d’uso”. Cosa è diventato dunque il giornalismo dopo la “transizione digitale” e dentro un mondo “onlife”, che sta per trasformarsi in “metamondo”? Battute a parte, il ruolo del giornalismo appare evidente – confidiamo non solo a noi - in questa generale confusione “apocalittica”. Un ruolo che interpreta, decodifica, classifica, usa e riusa, i dati del mondo – questo in fondo lo abbiamo già visto, magari ancora non in molti casi, ma gli esempi segnalati ce lo dicono in modo esplicito. Proprio questi stessi esempi di successo però ci mettono in contatto con un tipo di giornalismo anomalo e rischioso - utile e moderno - ma indubbiamente pericoloso. Un giornalismo fatto da singoli, fuori da una redazione, senza una corretta e necessaria struttura condivisa e partecipata di produzione e controllo. Come scrivevamo in epoca non sospetta dopo un incontro digit dedicato proprio alla nuova figura professionale del : “giornalista imprenditore” nel lontano 2015. Il giornale è un’opera collettiva. Si tratta di capire come realizzarla questa opera, adesso che il sistema di produzione è completamente cambiato.
Abbiamo – forse - compreso che non è più il “modello di business” che va cercato per salvare il giornalismo. Piuttosto il contrario. Sarà proprio la qualità e la funzione del giornalismo stesso a fornire un’ancora di salvezza a questa nostra società ancora orfana di “vera cultura digitale” e sballottata a destra e a manca dalle corazzate multimilionarie delle meta nazioni digitali.
I modelli di giornalismo vincenti – anche se imperfetti e pericolosi – che imperversano dentro ai social, ci forniscono – finalmente e in modo incontrovertibile – la rotta giusta da seguire, la giusta interpretazione, l’orientamento professionale corretto a cui ispirarsi. Farsi bussola, essere al centro di una comunità , tornare ad essere necessari. Il tutto però partendo dal giornalismo, dal mestiere, non da altre sponde. Tornare ad essere giornalisti, non imprenditori, ne specialisti di marketing o altre diavolerie. Leggere correttamente la transizione significa “essere la transizione” non camuffarsi in qualcos’altro e improvvisare. Il lavoro giornalistico – serio, professionale, e duro (soprattutto) - rimane alla base di tutto. Cambiano e si moltiplicano le modalità e anche di conseguenza le opportunità per realizzare il proprio lavoro e realizzarsi professionalmente.
La grande differenza in epoca digitale sta proprio nella moltiplicazione delle opportunità , - quasi all’infinito – comprendendo – per davvero - le nuove funzionalità che il digitale fornisce a tutti e, nella maggior parte dei casi, in forma libera e gratuita.
Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)