Fra il 2009 e il 2011 è iniziata, soprattutto negli USA, la sperimentazione dei primi programmi di scrittura giornalistica automatica. Il primo prototipo di programma di scrittura di testi per il giornalismo si chiamava “stats monkey” e realizzava i resoconti delle partite di baseball.
Da allora sono sorte delle aziende, soprattutto nel mondo anglosassone, specializzate nella realizzazione di “robot” per il giornalismo, come ad esempio, Narrative Science, o Automatic Insight, che producono programmi che realizzano testi partendo dai dati e usando alcuni specifici algoritmi. Tali aziende producono anche software specializzati nell’analisi e la catalogazione delle notizie - per alcune testate mainstream o agenzie di stampa anglosassoni – in grado di “aiutare” i giornalisti nella ricerca di informazioni su specifici campi, argomenti, persone o tematiche del momento.
Il Nytimes usa l’AI - in particolare un tool di Google – per moderare o meglio pre-moderare i commenti sotto le notizie ed evitare che frasi ad alto tasso di “tossicità ” possano avvelenare il dibattito, e trasformarlo in hate speech. La Reuters produce grafici dai dati attraverso l’AI in modo automatico. Il Washington Post ha realizzato e sta utilizzando, un proprio robot giornalista che scrive direttamente pezzi per il giornale, in un anno ne ha realizzati ben 850 diversi.
In tutti questi casi, si tratta di “tools”, al servizio dell’uomo, non di oggetti che sostituiscono il lavoro umano. Strumenti per aumentare la capacità dei redattori di produrre una informazione migliore, sempre più qualificata.
(Nicola Bruno)
Qualche giorno fa, il collega, amico e nostro associato, Sergio Ferraris ha scritto e pubblicato un articolo sul tema del “giornalismo automatico”, in cui, fra le altre cose, ha sottolineato, una serie di questioni legate non solo all’uso dell’intelligenza artificiale nel giornalismo; ma anche - e la cosa ci ha molto interessato – legate all’evoluzione presente e futura del lavoro e del ruolo dei giornalisti e del giornalismo nelle redazioni. Concetti tutt’altro che scontati, sui quali, a nostro avviso, è utile avviare una ulteriore riflessione. Scrive fra le altre cose Ferraris:
il quotidiano britannico The Guardian, in una data precisa, l’otto settembre 2020, ha cambiato definitivamente la storia del giornalismo. In quella data, infatti, sul sito del giornale inglese appare il primo articolo complesso scritto – o sarebbe meglio dire “compilatoâ€, come si fa con i programmi per i computer – completamente dall’Intelligenza Artificiale, attraverso un software molto sofisticato ma soprattutto molto efficiente nella produzione automatica di testi: il GPT-3, creato dalla statunitense OpenAI
GPT-3, il sistema in grado di apprendere da 17 miliardi di pagine web e con la capacità di coniugare 175 miliardi di parametri
GPT-3 è un modello linguistico innovativo che utilizza l’apprendimento automatico per produrre un testo simile a quello umano. Accetta un prompt e lo completa
Microsoft, che tra parentesi è proprietaria di GPT-3, il quale gira sui suoi supercomputer dedicati all’intelligenza artificiale, ha licenziato dozzine di giornalisti rimpiazzandoli con il programma, per la produzione di notizie per MSN.
Secondo gli autori sarà necessaria un’evoluzione nei lavoratori della conoscenza che potrebbero usare GPT-3 come uno strumento, ma per fare ciò dovranno creare delle nuove skill editoriali, utili prima di tutto a inserire al meglio le richieste al fine di ottenere i risultati migliori, e dopo altrettanto capaci di fare l’editing degli articoli, assemblandoli nella migliore delle combinazioni.
Certo il ruolo dei giornalisti, in questo contesto, sarà simile a quello dell’operaio “specializzato†in grado di “guidare†la macchina conoscendo le esigenze di input, sempre al fine di ottenere il risultato migliore, e quello “massaâ€, il cui ruolo è quello di “limare†il prodotto.
(Sergio Ferraris)
E’ passato qualche anno, l’AI ha proseguito nella sua evoluzione o meglio, gli sviluppatori di software hanno elaborato e
La fiducia ha cambiato natura: essa non è più istituzionalizzata, ma va costruita.
Il giornalista si figura come una sorta di scienziato dell’attualità , in grado di accedere alla realtà del fatto in se stesso. Il fatto sarebbe quindi accessibile, in assoluto, e a fortiori nel tempo breve dell’attualità ?
Quali che siano la sua buona volontà e il suo rigore, il giornalista, non più di chiunque, non sarebbe in grado di accedere a ” un fatto”. Non ne ha né il tempo né i mezzi. Anche gli scienziati nei loro laboratori, con tutti i protocolli di osservazione e di analisi che hanno messo a punto in decine di anni, sanno che non possono fare altro che, nel migliore dei casi, descrivere una ” rappresentazione della realtà “
Se il giornalismo insiste a considerarsi lo scienziato dei fatti di attualità , sarebbe ora che desse ai cittadini qualche garanzia sulla sua metodologia e sulla sua etica. Se riconosce invece che non fornisce altro che una rappresentazione, ammette di sottomettersi all’approccio critico del suo interlocutore e deve accettare in maniera definitiva il fatto che resta degno della fiducia che viene riposta in lui soltanto in maniera definitivamente provvisoria.
Bisogna accettare il fatto che la fiducia oggi non può più essere istituzionalmente cieca, ma deve essere costruita, e mantenuta, in una relazione interattiva con un interlocutore che non abbandona mai una briciola del suo spirito critico e della sua facoltà di giudizio.
E quindi non c’ è più nessuna “cultura del fatto” che tenga, non c’ è più nessun professionalismo dell’informazione e nessuna etica autoaffermata, non ci sono più “cani da guardia della democrazia” auto-designati. C’è invece una relazione di fiducia da costruire, attraverso la testimonianza e nel dialogo. E’ a questa condizione che i giornalisti ricostruiranno una credibilità articolo per articolo, sotto lo sguardo e il controllo permanente dei cittadini.
Molto più che nella ricomposizione delle condizioni di vitalità economica dei media in piena dislocazione, molto più che nell’identificazione dei nuovi ruoli da giocare nel nuovo mondo dell’informazione designato da internet, è quella la sfida della sopravvivenza del giornalismo.
E’ una rivoluzione culturale che la maggior parte dei giornalisti non sono oggi pronti ad accettare, senza capire che è proprio attraverso questo rifiuto che essi condannano la loro professione alla scomparsa.
Anni dopo le cose non sono cambiate e neanche migliorate, purtroppo, anzi. Ma questo non significa che non ci siano ancora molte possibili strade future per convertire la tendenza e rimettere il nostro ruolo e la nostra professione al centro del mondo. L’importante è, forse, non prendersi troppo sul serio o al più, ricordare, che ci sono persone che riescono a fare di peggio,
Spesso gli scrittori (a ragione, posso confermarlo su me stesso) vengono accusati di autoreferenzialità . In effetti si tratta di un lavoro su base ossessiva, e il mondo dei libri una prigione, per cui una volta si sia riusciti a entrarvi il rischio è di non uscirne più. Come orizzonte umano, intendo. Ma sta accadendo un fenomeno assai più interessante e atipico, che è sotto i nostri occhi ogni sera, quando nei dibattiti tv troviamo un giornalista che intervista altri giornalisti. Il moderatore (per definizione, un giornalista) ha intorno a sé in studio o in collegamento video altri due o tre giornalisti, persino cinque o sei se la trasmissione è di quelle che riempiono l’intera serata e gli ospiti si avvicendano sui loro sgabelli, spesso direttori o ex-direttori di importanti testate. Tradizionalmente il mestiere del giornalista era o avrebbe dovuto essere quello di porre le domande. A chi? Ai protagonisti della scena politica, economica e culturale. Adesso invece sembra consista soprattutto nel rispondere. Nell’esprimere il proprio punto di vista. So che in Italia non è mai stato così, ma sulla carta non dovrebbero importare a nessuno le opinioni personali di un giornalista, chiamato semmai a stimolare e raccogliere quelle altrui, magari contestandole, ponendo domande scomode, incalzando le contraddizioni dell’interlocutore, ricordandogli la realtà dei fatti se quello la travisa, e così via. Ora questa impersonalità professionale non è che non venga raggiunta, non viene nemmeno tentata. E il dibattito tra giornalisti pur se su differenti posizioni finisce per chiudersi in una autoreferenzialità assoluta, corporativa (si potrebbe dire che “se la cantano e se la suonanoâ€), che poi non a caso stimolerà in qualcuno la sensazione (ne ho scritto qualche giorno fa) di essere una specie di vate o di profeta, incoraggiandolo a monologare, a fare delle tirate a effetto, brani di stand-up comedy, trasformandosi perciò definitivamente in un intrattenitore. Del resto, se è stato un comico televisivo a creare dal nulla il più votato partito dell’ultimo decennio e a riempire un terzo del Parlamento coi suoi seguaci, vuol dire che la strada è aperta, che i ruoli professionali sono saltati, informazione, palcoscenico, politica, libri, pubblicità , moda, lobbying, magistratura, satira e pettegolezzo formano un tutt’uno, l’anello di cui si parlava cinquant’anni fa (la “società dello spettacoloâ€?) si è definitivamente saldato. Si sta ininterrottamente in tournée.
(Si è visto persino un giornalista chiedere a un altro giornalista un parere su quello che aveva combinato nella sua vita privata un terzo giornalista.)
(Velo pietoso Edoardo Albinati)