Repubblica, ma quello non è citizen journalism

Fare “citizen journalism” è un concetto forse ancora da definire (come il sesso degli angeli), ma creare un recinto di contenuti creati dagli utenti, con condizioni e finalità commerciali, non è propriamente fare “citizen journalism”.

E questo certamente, al di là delle istituzioni, può creare un problema etico, ma non relativamente alla questione dell’equo compenso, bensì in relazione all’uso ed al significato che alla rete internet si vuole dare.

Che non è un problema da poco. E’ il senso di tutto quello che oggi rappresenta la comunicazione e la libertà di espressione.

 

 

di Antonio Rossano

 

 

Il fatto

 

L’ 11 aprile un blogger del “Fatto Quotidiano” lancia l’urlo: “Repubblica.it recluta filmmaker da 5 euro”, con riferimento alla nuova iniziativa “Reporter”  del quotidiano online che prevede la possibilità per i cittadini di realizzare e caricare contributi video e fotografici, principalmente   a “tema”. Infatti, in una prima versione dei Termini d’Uso , Repubblica prevedeva, in caso il contenuto fosse ritenuto valido e, quindi, opzionato per l’acquisto, un contributo minimo per il “reporter” di 5€.

 

Apriti cielo.  La questione prende subito le vie istituzionali, e la Giunta FNSI in un primo momento,  tuona forte “qualsiasi collaborazione di tipo giornalistico venga richiesta a chi ne ha competenza deve essere trattata come tale, a cominciare dall’equo compenso” per poi moderare dopo che Repubblica, repentinamente, si accorge di aver commesso un piccolo (enorme) errore di percorso: “‘L’iniziativa di Repubblica sui videomaker, fortunatamente ridimensionata e chiarita dal punto di vista dell’equo compenso, è utile per chiarire le differenze fra citizen journalism e attività professionale” .

 

Si sviluppa in tempo reale una corposa discussione su Facebook e su altri luoghi autorevoli come Pandemia ed il Giornalaio, dove in generale l’iniziativa viene ritenuta meritevole, apprezzabile o una forma italiana di “Open Journalism” alla Guardian.

 

 

Il commento

 

Evidentemente, come sempre, la ragione non è un valore assoluto né un bene dispensabile dall’alto: in tutte le argomentazioni vi sono solide motivazioni ed angolazioni diverse più giornalistiche o più inerenti gli aspetti del marketing, ma comunque in ciascuna c’è una parte di verità.

 

Vorremmo quindi aggiungere, a tutte queste parti, un pezzo che sembra mancare.

 

La rete, Internet, per come la conosciamo oggi è il frutto di una evoluzione, di un passaggio fondamentale che riguarda gli aspetti tecnologico e della comunicazione, avvenuto alla fine del secolo scorso.  Il web, grazie anche ad una serie di tecnologie alla portata di tutti, (linguaggi di programmazione e markup come PHP, XHTML, CSS, a tools e aggeggini come API, Mashups, Feed, etc..)  cambia il modo di comunicare, passando da monocratico, dall’alto verso il basso e monodirezionale, ad una comunicazione bottom-up, bidirezionale e pluralistica. Si diffondono i blog ed i social network e, come ben sappiamo, l’ incapacità degli editori di approfittare di queste enormi risorse crea la più sconvolgente crisi dei giornali che si sia mai avuta. Irreversibile. Quella che vi fu ai tempi della diffusione della televisione è a confronto un raffreddore.

 

Nascono siti come Youtube, Facebook, Twitter e la parola d’ordine è una sola: condivisione !

 

Non c’è dubbio, non c’è possibilità di interpretazione: è un cambiamento strutturale, non di angolazione. Crollano i cosiddetti “walled garden” i luoghi impenetrabili diventano deserti ed irraggiungibili, prevale e si diffonde la logica dell’open source e del crowdourcing.

 

E questo il punto che, nella discussione su Repubblica ci appare il pezzo mancante.

 

Youtube, sui video caricati dagli utenti, nei propri termini d’uso, si concede, al punto 8.1A una licenza non esclusiva sui contenuti, ovverossia la facoltà di riprodurli e modificarli a suo piacimento, senza alcuna prospettiva di acquisto di diritti di autore, licenza cha anzi viene al punto 8.1B rilasciata a TUTTI gli utenti del servizio. Quindi chiunque può utilizzare , modificare e diffondere i video di Youtube. Chiunque può caricarli, purchè sia un utente registrato, e nessun rapporto di tipo economico è previsto “a priori” tra Youtube ed i suoi utenti. Insomma l’unico fee che viene riconosciuto al colosso di Mountain View è quel marchietto in basso a destra sui video.

 

La stessa cosa, in logica 2.0, fa il nostrano Youreporter (che tra l’altro ha avviato un azione legale nei confronti di Repubblica per una questione di marchio ) che al punto 9.1 dei termini d’uso recita:  ”All’ atto dell’inserimento di un Contenuto, l’Utente concede diritti limitati di licenza sia a Y.R.IT che a tutti gli altri Utenti registrati del sito.” Ed al punto 9.3 “Ogni Utente del sito ha una licenza mondiale non esclusiva priva di royalties ad accedere ai Contenuti caricati sul sito, nonché ad usare, riprodurre, distribuire e visualizzare tali contenuti.”

 

Insomma neanche qua si parla di soldi, ma la parola d’ordine è la stessa: condivisione.

 

I termini d’uso di Reporter appaiono farraginosi, sono già stati soggetti ad aggiustamenti, ma soprattutto, quello che sembra contare di più, se uno ha la pazienza di leggerli, è la possibilità di comprare/vendere, acquisire il diritto d’autore.

 

Fin dall’ inizio: al punto 1.1 (Oggetto) di oggi 19 aprile 2012 (!) recita: “Con il presente Accordo, Lei concede sin d’ora alla Società, quale mandataria di Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., il diritto di opzione per l’ acquisto dei diritti di cui al successivo art. 1.2 su uno o più filmati audiovisivi (di seguito il “Filmato” o i ”Filmati”) che Lei metterà a disposizione sul Sito, in risposta a specifici appelli tematici indetti sul Sito (“Call” o “Ingaggi”) o su Sua iniziativa autonoma e non sollecitata. L’ opzione di esercitare l’ acquisto da parte della Società e/o dal Gruppo Editoriale L’ Espresso S.p.A. potrà essere esercitata dalla Società e/o dalla sua mandante in qualsiasi momento entro i 5 (cinque) anni successivi alla data in cui il Filmato è stato fornito alla Società o è stato reso disponibile sul Sito.”

 

Ma andando avanti nella lettura è tutto un arrotolarsi intorno a questa questione, del diritto d’autore, ritenuta primaria da quell’editore.

 

Insomma, ci sembrerebbe che ci sia una certa confusione, quantomeno terminologica.

 

Fare “citizen journalism” è un concetto forse ancora da definire (come il sesso degli angeli), ma creare un recinto di contenuti creati dagli utenti, con condizioni e finalità commerciali, non è propriamente fare “citizen journalism”.

 

E questo certamente, al di là delle istituzioni, può creare un problema etico, ma non relativamente alla questione dell’equo compenso, bensì in relazione all’uso ed al significato che alla rete internet si vuole dare.

 

Che non è un problema da poco. E’ il senso di tutto quello che oggi rappresenta la comunicazione e la libertà di espressione.