Calcio, un altro giornalismo è possibile
Lo indica l’ esperienza dei Cahiers du football, una testata online francese che dal 1997 offre un trattamento dell’ attualità calcistica alternativo a quella dell’ editoria sportiva dominante, che produce volumi sempre maggiori di ipermediatizzazione e banalizzazione.
Jérôme Latta, co-fondatore e Redattore capo dei Cahiers, ‘’franco tiratore’’ del calcio raccontato,  delinea in una lunga intervista concessa in questi giorni ad Acrimed (di cui Lsdi pubblica la traduzione), una analisi acuta di come il giornalismo ‘’sportivo’’ (in Francia soprattutto quello televisivo) contribuisca a trasformare il calcio in spettacolo e in prodotto commerciale.
E di come si siano deteriorati i rapporti fra giornalisti e calciatori di fronte al dominio sempre più stretto della comunicazione da parte di società , agenti sportivi e sponsor.
E racconta anche come i Cahiers (che pure hanno 15 anni di vita) e molti altri siti web di ultima generazione cerchino di far vivere un diverso giornalismo sportivo, malgrado le difficoltà nel trovare un modello economico che sostenga in maniera stabile la sua specificità editoriale.
Entretien – Le journalisme de football vu par un franc-tireur : Jérôme Latta des Cahiers du football
(Acrimed)
– Ci presenti i Cahiers du football e il suo progetto editoriale?
Abbiamo lanciato il sito alla fine del 1997, con due amici. Allora L’Équipe e, in misura minore, France Football regnavano nel campo della stampa specializzata, perché la stampa d’ informazione non si interessava veramente al calcio. Il trattamento degli avvenimenti sportivi era molto povero, privo di spirito critico e di senso dell’ umorismo, e trascurava gli aspetti economici, politici, mediatici o sociali. Con l’ arrivo di Internet abbiamo avuto la possibilità di convertire, con pochi mezzi, la nostra frustrazione di lettori. Si trattava anche di difendere l’ idea di un calcio che era già fortemente minacciato, il suo lato gioioso, la sua cultura così facilmente condivisibile, le sue radici popolari. La linea di una ‘’critica mediatica’’ è presente sin dalla nascita, con l’ obbiettivo di dimostrare che un altro giornalismo è possibile. Il progetto è rimasto lo stesso di oggi.
– Come siete riusciti a durare tanto?
Evitando di un soffio la chiusura a più riprese. Nel 2002 avevamo annunciato la fine della nostra avventura ma le reazioni dei lettori ci hanno convinto a rimetterci in sella – in particolare con il progetto di una edizione su carta. La redazione si è lanciata in questa impresa e abbiamo diffuso in edicola 43 numeri di un mensile formato tabloid. Nel novembre 2009 abbiamo annunciato la chiusura della pubblicazione, per mancanza di mezzi umani sufficienti dopo una serie di disavventure. E abbiamo ripiegato nella nostra terra d’ origine, la Rete.
– C’ è una certa somiglianza fra voi e Le Canard enchaîné. Ma perché i Cahiers non pubblicano inchieste, come fa il palmipede?
 Perché non siamo del tutto il Canard Enchaîné del pallone. Al momento della sua creazione eravamo più vicini al Charlie Hebdo.  Fare nello stesso tempo ‘’satira e critica’’ è sempre stata la nostra parola d’ ordine, con humour e una presa di distanza, e una dose di militantismo; ma non i mezzi per fare delle investigazioni. La nostra vocazione è sempre stata più quella di sfruttare le notizie che di ‘’farle uscire’’: oggi tutti hanno accesso a delle fonti ricchissime.
– Investendo somme molto elevate nei diritti tv sui grandi avvenimenti calcistici le reti televisive si sono trasformate nei principali attori economici di questo sport e quindi, indirettamente, in co-produttrici delle competizioni che diffondono. Il commento giornalistico può in queste condizioni essere qualcosa di diverso da una cieca promozione di uno spettacolo?
Potrebbe esserlo ma a patto di un po’ di coraggio editoriale e di ideologia giornalistica pura, ma questo non avviene: i media specializzati, nella loro grande maggioranza, hanno come missione quella di vendere spettacolo. Impossibile essere contemporaneamente l’ agente commerciale e l’ osservatore imparziale di una industria. Nelle emittenti assistiamo anche all’ abolizione del mestiere di giornalista così come di ogni distanza dal prodotto. Interi strati di attualità calcistica vengono totalmente occultati su Canal+, TF1 o beIN Sport. Il fatto che i media di informazione generalista abbiano così poco valorizzato il giornalismo sportivo, contrariamente al Regno Unito (e all’ Italia, aggiungiamo noi, ndr), dove i quotidiani hanno da tempo delle rubriche di grandissima qualità , non ha contribuito allo sviluppo di una visione più stratificata e più riflessiva.
– Perché i media sportivi pubblicano, in generale, poche inchieste?
Per le stesse ragioni. Le emittenti televisive le bandiscono, le radio e la stampa scritta sono molto riluttanti perché non si deve denigrare o alterare l’ immafgine del calcio. E quindi non c’ è nessuna cultura dell’ inchiesta e dell’ investigazione in seno al giornalismo ‘’sportivo’’: sono gli altri servizi e gli altri media che devono occuparsene. Sporadicamente può capitare che qualche testata abbia qualche inchiesta spettacolare, come recentemente quella di France Football sul “Qatargate”, ma non rientrano in una strategia costante di lotta contro quello che minaccia lo sport professionale. E di conseguenza, lo sport professionale è protetto molto male dalle sue derive.
– In che modo le emittenti televisive possono pesare sullo svolgimento stesso delle gare?
Costituiscono la principale fonte di risorse per i club e quindi gli organizzatori devono soddisfare una parte delle loro esigenze, spontaneamente o subendo l’ azione di lobby delle emittenti. La Champion League, il cui peso economico è notevole, è un prodotto molto televisivo: un feuilleton a episodi, molti incontri, molte inserzioni tra i migliori club europei che ospitano i giocatori migliori. Questa influenza ha favorito lo sviluppo di un calcio molto stratificato e la nascita di una élite economica di società che domina i vertici della gerarchia sportiva, esacerbando così lo spettacolo. Spesso a detrimento dello sport, a forza di iper-mediatizzazione e di banalizzazione. Le esigenze televisive hanno poi contribuito a ingigantire le competizioni e a produrre un calendario estremamente fitto.
– Ma questo peso delle ha un effetto sul sistema e il gioco stesso?
Indirettamente: le televisioni hanno arricchito i club più ricchi attraverso i diritti contribuendo così alla concentrazione dei giocatori migliori in un ristretto numero di squadre. Il bisogno di spettacolo ha anche incoraggiato la performance individuale, il culto del gesto e dei calciatori-superstar. Ma l’ effetto sul gioco è diffuso, è più percebile ai margini, ad esempio nel comportamento dei giocatori, che letteralmente giocano con le telecamere fuori dalle fasi di gioco. E’ soprattutto sulla rappresentazione del calcio che le tv hanno un ruolo determinante, attraverso la regia delle partite, i cui effetti sono spesso disastrosi, con delle scommesse tecnologiche sempre più esagerate, e senza la minima riflessione, che finisce per intrappolare il gioco stesso. E su questo argomento sono da leggere gli articoli di Jacques Blociszewski.
– Nella loro attività ordinaria quali relazioni intrattengono i giornalisti specializzati con i calciatori?
Da un lato c’ è una tradizione di connivenza: storicamente, nasceva dalla prossimità fra gioralisti, un tempo poco numerosi, e giocatori non ancora ‘’divinizzati’’. Oggi questa tradizione prende la forma di relazioni personali più o meno interessate, con degli patti impliciti: tu mi dai delle informazioni e io ti risparmio, o ti tratto bene (anche attraverso le tabelline). In modo più banale, si tratta di garantirsi l’ accesso all’ ‘’informazione’’, e la rubrica dei numeri telefonici è un prezioso capitale personale.
Dall’ altro lato c’ è una ostilità reciproca crescente, frutto di una attenzione mediatica decuplicata, non sempre benevola, e una distanza sempre maggiore fra giornalisti e giocatori, la cui attività di comunicazione è sempre più inquadrata, limitata e formattata – e in più spesso delegata forzatamente alle società , agli agenti e agli sponsor, che la organizzano in maniera ferrea. Frustrazione nei primi e rancore nei secondi, un disprezzo reciproco.
– C’ è quindi un processo di degrado?
Negli ultimi anni la tensione ha fatto esplodere violenti alterchi verbali e a volte anche fisici: fra Nasri e un giornalista dell’ AFP agli europei 2012 sono volati insulti, oppure fra Cyrille Jeunechamp e un cronista dell’ Équipe a Montpellier (il primo ha aggredito il secondo). Ma in filigrana la consegna è di non rompere con I calciatori per continuare a scroccare interviste o semplicemente a registrare le loro dichiarazioni nei dopo partita. C’ è una forte dipendenza dei media specializzati da calciatori e allenatori, che riempiono una gran parte dei contenuti, sebbene siano in gran parte vuoti e prevedibili.
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– E con gli allenatori o i dirigenti?
Anche la relazione con gli allenatori è complicata: sono l’ anello più debole, quello che salta per primo quando una squadra va male. Così se è coronato dal successo sono tutte lodi, ma se la fortuna gira le spalle, diventa oggetto di critiche senza misericordia. Anche se lo negano con una convinzione sorprendente, i giornalisti contribuiscono in maniera significativa alla rimozione di un mister, creando un nuovo episodio drammatico di questo feuilleton. Con i dirigenti i conflitti sono spesso più aperti. Un presidente come quello dell’ OL, Jean-Michel Aulas, ha vissuto un conflitto prolungato con L’Équipe, anche se non di grandissima virulenza. Ma il mondo è quello:, al di fuori dei periodi di rinegoziazione dei diritti televisivi, la maggior parte degli interessi sono condivisi.
– Più in particolare, ci puoi dire il tuo punto di vista sul caso dell’ Équipe, sul modo con cui tratta I grandi avvenimenti calcistici e la sua posizione di monopolio ?
Anche se il gruppo Amaury lo ha ripetutamente difeso in modo poco leale, il monopolio dell’ Équipe può difficilmente essere rimproverato al giornale e ai suoi giornalisti. E niente ci dice che una maggiore concorrenza avrebbe portato una maggiore qualità e diversità . Le esperienze recenti hanno invece dimostrato l’ opposto, col modello di quotidiani sportivi low-cost sperimentato da  Aujourd’hui Sport, Le Sport e Le 10 Sport, che sono stati tutti degli scacchi editoriali ed economici. Resta comunque il fatto che in nome del prestigio del giornale, dei valori che rivendica ufficialmente e di un pizzico di ambizione editoriale, L’Équipe avrebbe potuto svolgere un ruolo di vigilanza, di chi lancia allarmi, di osservatore critico delle allarmanti evoluzioni del calcio. In mancanza di ciò, è rimasto invece uno spettatore passivo (nel migliore dei casi), o a volte complice, di queste evoluzioni che i suoi giornalisti avevano sotto il naso.
– Come si spiega questa passività ?
I fattori sono diversi. Fra di essi l’ argomento classico ‘’ma questo alla gente non interessa’’, o ancora una ideologia storicamente di destra e l’ interesse condiviso a vedere il calcio trasformato in una industria dello spettacolo. Ma resta questa passività rinunciataria, anche se oggi il giornale, in maniera prudente e con 15 anni di ritardo, sta arrivando allo stadio della ‘’presa di cooscienza’’. Su alcune questioni, come quella degli arbitri, ad esempio, il giornale ha adottato la posizione imbecille delle televisioni. Ma non si può essere particolarmente sorpresi dall’ assenza di qualsiasi critica nei confronti del trattamento televisivo del calcio quando si ha qualcosa su cui si può ridire. Ma l’ ambiente è così piccolo che bisogna evitare di rompere con eventuali futuri colleghi o padroni, di compromettere dei possibili sbocchi professionali, o l’ accesso ai piani alti: tutto ciò rafforza il tabù corporativo.
– Pensi che per la stampa So Foot costituisca un contro-esempio?
Sì. E’ una esperienza molto significativa, a magior ragione perché sembra essersi assicurata la sopravvivenza. Sono riusciti a conciliare un vero progetto editoriale con un modello economico che funziona.  Si possono forse trovare dei limiti o avanzare delle critiche, ma bisogna salutare questo successo. Purtroppo So Foot resta relativamente ai margini dell’ ambiente ed esercita su di esso solo una influenza limitata.
– Che cosa può spiegare questo immobilismo e conformismo generale?
Nei 15 anni della nostra esistenza, il bilancio è terribile: abbiamo visto solo dirigenti nominati per formattare un giornalismo di mercato, centrato sui servizi di marketing e i monopoli pubblicitari, senza immaginazione, che si sforza solo di riprodurre formule stanche, di dire il meno e di correre dietro alla facilità . In realtà non fanno altro che accompagnare, aggravandolo, il declino delle loro testate. Non c’ è nessuno sforzo di ‘’ricerca e sviluppo’’, e vista la situazione questa cosa equivale a un suicidio. Nella stampa specializzata la principale risposta alla crisi è stata quella di impoverire i contenuti, di essere sempre di più dei piazzisti. Degli sforzi in alcuni settori ci sono,m ci sono dei buoni giornalisti, ma nessuna visione, nessun vero progetto editoriale.
– Il processo è stato lo stesso in televione o in radio?
Nel campo audiovisivo, quando il numero dei canali è letteralmente esploso, la vittoria del conformismo e del livellamento verso il basso è stata totale. Si tratta di fare quello che fanno gli altri, magari in peggio, e sempre con lo stesso casting di cavalli usati fino allo stremo, ma ben determinati a preservare le loro comparsate in talk-shows di una mediocrità sconfortante. A parte delle effimere eccezioni, non abbiamo visto apparire nulla di nuovo. Una gran parte della corporazione è governata dai rapporti di ‘clan’ e si blinda contro le critiche stillando un senso di aucompiacimento permanente. La magia della mediocrità generale è che essa permette ai suoi produttori di non prendere mai coscienza, continuando a mantenere nel pubblico un livello di esigenze molto basso.
– E Canal+ come evolve in questo contesto?
Canal+, che potrebbe vantarsi di aver introdotto molte innovazioni e di essersi smarcata dalle altre emittenze, si contenta di centellinare qualche piccolo sforzo di qualità , mettendosi in posizione di testa delle derive più comuni: blaterazione, people-izzazione, condiscendenza, insensatezza, ampollosità , odio contro gli arbitri, disprezzo dei tifosi, censura degli aspetti problematici. In termini di audience tutto ciò conviene. Ma per quanto riguarda lo sviluppo dell’ amore e della conoscenza del calcio, è catastrofico. Anche a Canal+, a medio e a lungo termine, che non cura i proprio mercato e che disprezza il nocciolo degli appassionati del calcio.(…).
– Le sezioni « Sport » dei giornali generalisti nazionali (Le Monde, Libé…) sembrano adottare una maggiore libertà di tono rispetto ai media specializzati. Tu stesso d’ altronde hai un blog su lemonde.fr. Come lo spieghi?
Diciamo che dopo aver trascurato parecchio la cronaca sportiva, i quotidiani cosiddetti ‘’seri’’ si sono avvicinati quando questo campo è diventato più ‘’nobile’’ (e più redditizio), adottando un punto di vista più distaccato, dall’ esterno, conforme alla propria cultura giornalistica. L’ attualità ‘’non sportiva’’ dello sport offre una moltitudine di temi appassionanti e legittimi come qualsiasi altro argomento. Anche i pure players, soprattutto Re89, hanno apportato un approccio interessante, più moderno. E a volte ci sono delle porte che si aprono: come, nel mio caso, la proposta di animare un blog su lemonde.fr.
– I siti internet specializzati hanno fatto evolvere il giornalismo sul calcio?
I siti professionali hanno adottato I format del web, come l’ Informazione continua o le dirette, a volta le infografie, ma senza un reale valore aggiunto sul piano editoriale. I loro contenuti si situano fra base e mediocrità , in una logica di flusso di contenuti e di ricerca di traffico. Il ‘’marchio’’ e I mezzi economici dell’ Équipe gli hanno permesso di acquisire una certa supremazia e stupisce constatare che i pure players sportivi non hanno veramente una propria immagine, mancano di personalità .
– E i siti amatoriali o indipendenti?
Il fenomeno maggiore degli ultimo anni è l’ emergere su internet di una serie di siti indipendenti che ha portato una vera diversità e un rinnovamento significativo: I redattori hanno grande conoscenza del settore, hanno tono e humour, ed esplorano dei terreni spesso trascurati dai media professionali: il tifo, la tattica, laa storia del calcio e delle culture popolari che gli sono legate. In breve, quello che fa dello sport una cultura e non solo un prodotto.
– Quale influenza può avere questo processo?
Da ottimisti si può sperare che questi siti eserciteranno a una influenza benefica sull’ insieme del mondo del calcio. In alcune testate si vede arrivare una generazione di giornalisti che hanno voglia di fare cose nuove, che hanno poppato ai biberon di So Foot o ai Cahiers. Si può anche sperare che i media istituzionali finiscano per reclutare dei talenti fra coloro che emergeranno da questo vivaio. Resta da capire se la pressione del mercato del lavoro, ultra precarizzato, non li costringerà a rientrare nei ranghi. Il problema maggiore è che ci vorrebbero dei capi redattore con un po’ di coraggio ed ambizione. Ma in questio campo siamo alla desolazione.
– In un contesto di ipermediatizzazione mercantile del calico, ma anche di profondi cambiamenti nell’ economia dei media, quale potrebbe essere la strada per un giornalismo nello stesso tempo indipendente dalle società dello spettacolo sportivo, meno focalizzato sull’ avvenimento e più distaccato rispetto allo spettacolo e ai suoi attori dominanti? Internet può essere una risposta? Con quale modello editoriale e quale modello economico?
Sfortunatamente non c’ è una soluzione semplice. I confini si sono allargati ma queste esperienze restano basate in gran parte sull’ impegno volontario, dipendono in maniera determinante dalla mobilitazione dei loro animatori. E’ difficile per loro trovare un modello economico per stabilizzarsi: a questo livello di traffico le risorse pubblicitarie sono insufficienti e il ricorso a delle soluzioni a pagamento è difficilmente immaginabile vista l’ ampiezza dell’ offerta gratuita.
– Il finanziamento con la pubblicità è un problema?
Su Internet la pubblicità obbliga a fare volume, clic: bisogna riprendere e ridurre quella notizia, sfruttare le controversie del giorno, bombardare le reti sociali. E anche accettare a dei format pubblicitari sempre più intrusivi, senza parlare dei link sponsorizzati e di altre alienazioni del contenuto redazionale.  Fino ad ora tutto questo condanna a priori i modelli editoriali che vogliono privilegiare la qualità e la quantità . Le formule a pagamento forse sono una soluzione. Da parte nostra abbiamo deciso di tentare un modello misto, che associa i ricavi dalla pubblicità (la cui presenza è comunque limitata) e i contributi dei lettori, che stimoliamo a sottoscrivere degli ‘’abbonamenti di sostegno’’.
– Che cosa possiamo augurare ai Cahiers du football ?
Una cosa sola: che il loro modello editoriale riesca a incrociare finalmente un modello economico. Stiamo entrando in un nuovo ciclo, con dei nuovi blog e dei nuovi redattori, con un incremento della scrittura partecipativa attraverso il nostro “Atelier” sul forum, la voglia intatta di continuare l’ avventura mentre ci evolviamo… I mesi prossimi saranno decisivi per i Cahiers.