Il Guardian senza paywall: ma è concorrenza sleale?
Introdurre il paywall dovrebbe essere per il Guardian ‘’un imperativo moraleâ€, per evitare di fare “concorrenza sleale†agli altri giornali. E’ la curiosa convinzione di David Carr e Ken Auletta, editorialisti del New York Times, che, intervenendo nel programma News Hour della Pbs, giudicano il passaggio del quotidiano londinese all’ informazione a pagamento una soluzione imprescindibile per poter continuare a fare del buon giornalismo investigativo. Secondo loro, senza le possibilità offerte dal paywall infatti, sarebbe impossibile poter documentare vicende complesse come quella del Datagate.
La questione – come ricostruisce Primaonline.it – coinvolge non solo, evidentemente, il futuro del giornalismo investigativo, ma anche il panorama più prettamente economico dell’ industria dei quotidiani.
Carr ed Auletta sottolineano infatti la particolarità della situazione del Guardian, che è gestito da un soggetto – lo Scott Trust – ‘’che gli garantisce un flusso di cassa continuo e condizioni da stato socialista’’, tanto che la testata ‘’per nove anni consecutivi si è potuta permettere di essere in perditaâ€.
Sarebbe dunque questo il momento più indicato per il Guardian di adottare il paywall, per via dell’ interesse suscitato dalla vicenda Snowden, consentendo così al giornale online di rimettere in ordine i propri conti.
Il Guardian, da parte sua, si è sempre dichiarato contrario a questa strategia. Lo ha nuovamente chiarito Emily Bell, ex direttrice dell’area digitale del giornale ed ora docente alla Columbia Journalism School, secondo cui il paywall rappresenta un’ idea contraria di giornalismo rispetto a quella sino ad ora perseguita dal Guardian stesso. Il modello seguito è infatti quello dell’Open Journalism, che consente la creazione di una forte comunità caratterizzata da una stretta interazione tra produttori e fruitori della notizia.
Dean Starkman sulla Columbia Journalim Review, fa notare come il Guardian non sia paragonabile all’assetto di altri giornali, come ad esempio il New York Times: esso infatti non è un’azienda in senso stretto e quindi non ha bisogno di ‘’crescere finanziariamente’’. L’ unica sua necessità è quella di ‘’non perdere troppi soldi’’. E quindi non ha bisogno di adottare il paywall per risanare i propri conti.
Ma anche una situazione di privilegio come quella descritta qui sotto potrebbe essere destinata ad esaurirsi e anche il Guardian, prima o poi, dovrà fare i conti con i bilanci.
Ecco, nei particolari, come Starkman descrive la situazione del quotidiano londinese.
Il Guardian ha un pedigree tutto particolare ed è governato secondo una struttura inusuale. Fondato da un commerciante di cotone agli inizi del 19° secolo, il giornale fu poi acquistato da un editore, C.P. Scott, il cui figlio lo inserì in un ‘’trust’’, lo Scott Trust, che nel 2008 fu poi trasformato in una “limited companyâ€, mantenendo però sostanzialmente la stessa funzione: ‘’sostenere il giornalismo libero da ogni interferenza commerciale o politica’’, secondo qquando spiega Guardian literature.
Il trust è l’ unico proprietario di una società chiamata Guardian Media Group (GMG), che a sua volta possiede diverse unità , inclusa la più famosa, Guardian News Media (GNM), che è il ‘’giornale’’ sia nella sua forma su cart ache in quella digitale, oltre ad altri piccoli servizi.
Il fatto importante è che, contrariamente a The New York Times o a The Washington Post, il Guardian  alla fine non fa parte di una azienda commerciale. Non deve crescere finanziariamente. Deve solo non perdere troppo.
Il problema – spiega Starkman – è che GNM, la testata e la redazione, sta perdendo molto. Come molti sanno, sta perdendo, davvero, un sacco di soldi.
Quanti?
Mettiamola in questo modo. Il gruppo non punta a profitti per GNM, ma solo a mantenere le perdite a ‘’livelli sostenibili’’. Ma il problema è che non lo sono. Ecco qui sotto come sono andate negli ultimi cinque anni ( in milioni di sterline) .
Fortunatamente per il Guardian, e per il mondo libero , il Trust possiede altre aziende che fanno parte del gruppo più grande. Le due cose principali sono una grossa partecipazione in Trader Media Group , che possiede Auto Trader, un sito molto redditizio di commercio di automobili, e Top Right Group, che fa pianificazione di eventi e simili.
Nel 2013, per esempio, le due aziende commerciali stanno guadagnando abbastanza per spingere l’ intero gruppo al profitto .
Ma decisamente non è sempre stato così. Come possiamo vedere qui  sotto, l’ intero gruppo – al di là di GNM – ha registrato perdite in tre degli ultimi cinque anni.
L’ asso nella manica del Guardian è il Trust e il suo fondo di investimento, che esiste per sovvenzionare il giornale e che , dopo aver preso alcuni colpi a causa della crisi finanziaria , si è stabilizzato. Il dato importante è la linea blu , il fondo di cassa e gli investimenti :
Ma non può essere un pozzo senza fondo.
Come Ken Auletta ha osservato in un suo recente intervento sul giornale :
Il Guardian l’ anno scorso ha perso più soldi di quanto non avesse fatto nell’ anno fiscale 2007-08. Per curare la stampa e le operazioni online la testata impiega 1.600 persone in tutto il mondo, fra cui 583 giornalisti e 150 sviluppatori digitali, designer e ingegneri. ‘’La critica più pesante che si possa fare ad Alan Rusbridger è che non ha affrontato i costi del giornale’’, ha ammesso un vecchio dirigente. La redazione ‘’è troppo grande per un giornale digitale’’.
Ancora:
Andrew Miller, il Ceo di GMG, ammette  che non è possible immaginare che il giornale possa fare profitti in tempi ragionevoli. Rusbridger lo ha confermato: ‘’L’ obbiettivo è avere delle perdite sostenibili’’. Miller punta a tenere le perdite sotto il 13% entro i prossimi 3-5 anni.  Ma a un certo punto, se il Guardian non comincerà a fare soldi, la liquidità del Trust, che attualmente è sui 254 milioni di sterline, finirà per esaurirsi.
(g. r.)