Giornalismo: quando l’ etica è una cosa seria
I responsabili dei giornali hanno l’ obbligo di proteggere i giornalisti non solo dai pericoli in zone di guerra ma anche quando lavorano vicino casa.
E il terreno dei commenti – con i rischi di aggressioni, insulti, attacchi e violenza verbale – è particolarmente delicato ora che l’ informazione giornalistica nell’ era della partecipazione presuppone un rapporto molto diretto con i lettori.
 John Kroll, un giornalista del Plain Dealer (Cleveland), responsabile da anni dei rapporti con i lettori,  spiega sul suo blog* perché il lavoro di moderazione dei commenti è un obbligo etico nei confronti di chi produce contenuti per il giornale.
E osserva che fare spallucce, per editori e direzioni, è grave quasi quanto non preoccuparsi della protezione di un inviato in zone di guerra.
L’ articolo ci sembra interessante anche perché fa capire che il tema dell’ etica professionale, nel giornalismo americano, non è solo una cosa teorica (e retorica).
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Journalism ethics: Why we are responsible for the mud-slinging in our comments
di John Kroll
Non c’ è bisogno di fare gli inviati in zone di guerra per essere in pericolo. I responsabili editoriali e redazionali hanno l’ obbligo etico di preoccuparsi della sicurezza anche dei giornalisti che lavorano vicino casa. Perché non ci sono solo pericoli fisici: ho visto dei colleghi scossi da reazioni emotive molto intense quando erano chiamati a seguire crimini orribili, per esempio. Se mettiamo delle persone in queste situazioni, dobbiamo capire che la nostra responsabilità non si esaurisce nell’ offrire loro una bottiglia e nel farli staccare un paio d’ ore prima.
La natura delle notizie è cambiata. In primo luogo l’ informazione è molto più interattiva. Una volta avevamo a che fare solo con lettere o telefonate di persone arrabbiate e per loro trovare i numeri diretti dei giornalisti non era sempre facile . Ora possiamo essere contattati e raggiunti via mail o sui social media. E, soprattutto , ci sono i commenti ai nostri articoli.
In secondo luogo, i contenuti che consegniamo al nostro pubblico non vengono solo da professionisti pagati. Invitiamo i blogger, generalmente non retribuiti o con bassi compensi, a condividere le loro riflessioni sulle nostre piattaforme. E incoraggiamo i lettori a portare acqua al mulino dei nostri siti, attraverso foto o video e, soprattutto, commenti.
Abbiamo quindi il dovere di proteggere tutti i nostri collaboratori da insulti, epiteti pesanti e altri attacchi personali.  Il fallimento dei codici etici attuali di fronte a questo problema ha reso troppo facile per gli editori e i direttori scrollarsi da dosso questa responsabilità . Il giornalismo professionale deve accettare e riconoscere che invece questo è un nostro preciso dovere .
Negli anni in cui sono stato responsabile del lavoro di moderazione dei commenti per il Plain Dealer , mi sono reso conto che il problema maggiore erano gli attacchi personali. In parte perché erano molto diffusi , ma soprattutto perché né i miei capi , né alcuni dei nostri commentatori sembravano capire perché avessimo bisogno di una politica di tolleranza zero .
Quando per primo ho stabilito delle linee da seguire per la moderazione, i miei capi accettavano con facilità le restrizioni sul razzismo e le parole volgari. Ma gli insulti? Beh, forse , se erano particolarmente pesanti, ok. Ma per loro un commentatore avrebbe potuto tranquillamente chiamare uno idiota. Quanto ai giornalisti, essi erano per un gioco equo. Non vogliamo mica essere accusati di soffocare le critiche?
Sin dall’ inizio ho visto che, così come le avevamo impostate, quelle linee guida erano sbagliate. Insulti, anche lievi, degeneravano quasi inevitabilmente. Più di una volta , qualcuno che aveva perso l’ account per gli insulti fatti si lamentava con me sostenendo che era stata l’ altra persona a cominciare. E quando io suggerivo che non bisognava rispondere sullo stesso piano, il lettore insisteva che ‘’lui non poteva stare zitto e accettare quella cosa’’.
Ma al di là di chi avesse ragione o torto, quei battibecchi avevano un effetto più ampio. Essi imponevano un determinato tono al sito. Ed è stata questa la ragione per cui ho cominciato a dare un giro di vite ai commenti agli articoli dei nostri giornalisti. Alla fine forse era un’ altra la ragione più importante: come potevo sperare di convincere i giornalisti a coinvolgere gli utenti nei commenti se sapevano che quei commenti avrebbero potuto contenere anche delle accuse dure nei loro confronti? Perché le croniste avrebbero dovuto impegnarsi sapendo che il loro aspetto – rivelato anche soltanto da una piccola testina sul sito – sarebbe oggetto di ‘’attenzione’’ maligna da parte dei soliti cretini ?
Alla fine, al di là dei motivi pratici, quello che conta è il  discorso etico. Anche se ovviamente il pericolo nel campo dei commenti è molto inferiore rispetto a quando il giornalista corre dei forti rischi sul piano fisico, il principio etico è lo stesso: se qualcuno dei tuoi è nella fossa dei leoni,  hai il dovere di vedere come salvarlo.
Protezione, nel caso dei commenti, significa essere rigorosi.
Può un lettore in un commento sostenere che qualche elemento di un articolo sia non giusto? Certo. Può accusare un giornalista, senza conoscere le motivazioni di un articolo, di essere di parte? No. Può un commentatore dire a un giornalista quale look avere? Assolutamente no, quello che conta è il lavoro non le apparenze. Possono chiamare stupido un giornalista solo perché c’ erano errori di battitura in un post ? No. Si oltrepasserebbe la linea.
Ci sono dei settori in cui però non si possono indicare delle linee di condotta precise. Twitter ad esempio. Lì, il nostro compito responsabile è insegnare ai redattori le buone pratiche, spiegare come ( e se) rispondere agli attacchi. Dovremo anche evitare linee che costringano il nostro personale in brutte situazioni . Nessuno, per esempio, dovrebbe essere costretto a pubblicare una propria foto di se stessi: ci dovrebbe sempre essere la possibilità di utilizzare un avatar generico .
Jane B. Singer , scrivendo su Media Ethics magazine  a proposito di questo problema, osserva:
Susan Smillie è direttrice del sito web per l’ Observer , … i cui giornalisti collaborano anche al Guardian nella rete dei blog.  Lei dice di sentire una forte responsabilità nei loro confronti e spesso cerca di parlare con loro su come scrivere per i blog del guardian.co.uk  – e cosa aspettarsi quando lo si fa . ” So che se non lo fanno bene rischiano di avere una brutta esperienza “, dice . “A volte può essere davvero scioccante.  E ‘ come se  improvvisamente uno venisse gettato nella fossa dell’ orso “.
Smillie parla esplicitamente dell’ “obbligo di responsabilità ’’ (“duty of care† è un concetto giuridico specifico, ndr) nei confronti dei suoi colleghi . “Loro pensano di sapere quello che stanno facendo ,tu pensi che essi sappiano quello che stanno facendo , e lo fanno . Ma le regole sono cambiate . Ed è per questo che sono diventata molto più attenta a parlare con la gente prima’’,  dice. Anche i blogger esperti possono restare scioccati e sconvolti dalle risposte che a volte ricevono. Smillie spiega che cerca di essere sicura che i suoi collaboratori siano pienamente consapevoli di ciò che può succedere in questo ” territorio inesplorato “, soprattutto se stanno scrivendo qualcosa di controverso .
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Il lavoro di monitoraggio e gestione dei commenti è anche un obbligo etico
Il compito di controllare quello che accade sui nostri siti ci dà un ulteriore livello di responsabilità . Dobbiamo capire che se permettiamo i commenti  – sul nostro sito, sulle pagine di Facebook che gestiamo, su qualsiasi piattaforma di cui abbiamo un qualche controllo – dobbiamo monitorarli attivamente e moderarli. Se convinciamo qualcuno ad aggiungersi al nostro sito, dobbiamo garantire che essi non siano soggetti ad attacchi personali. Ci sono solo due modi per farlo: bloccare del tutto i commenti o fare il lavoro di moderazione in modo attivo.
Non ci sono alternative. Mi sono veramente stancato della discussione sull’ anonimato. Che si utilizzi la registrazione su Facebook  o il metodo della ‘’verifica’’ di questa registrazione, che si richieda la carta di credito o che il potenziale commentatore venga di persona e vi dia le impronte digitali, il problema vero è che l’ immondizia arriva nei commenti. Volete insistere su qualche forma di ID ? Bene . Ma non utilizzate questa cosa come una scusa per sottrarvi al vostro dovere di moderazione .
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* Questo post, segnalato da Lelio Simi (via Giornalismo digitale ) fa parte di una serie di articoli sull’ etica giornalistica, cominciata con 5 levels that take ethics from broad principles to daily decisions e proseguita con Three core principles e How a code can translate into better decision-making. Il prossimo e ultimo articolo sarà dedicato a ‘’The difference between ethics, morals and taste’’.