Giornalismo contro complottismo: meno imprecazioni e più inchieste
L’ ultimo numero di Médiacritique(s), il trimestrale edito da Acrimed (l’ Osservatorio critico sui media), appena uscito in libreria, contiene un ampio dossier sul tema ‘’Media e complotti’’. Una serie di articoli analizzano vari aspetti del complottismo e delle teorie cospirazioniste.
Fra di essi un intervento, che presentiamo su Lsdi, in cui Henri Maler, uno dei principali animatori del sito francese, invita i giornalisti a fare meno i pedagoghi che guardano dall’ alto in basso, aumentando così il tasso di sfiducia dei cittadini nei confronti dei media,  e più il lavoro di inchiesta.
Cercando – dice – di denunciare sia i ‘’complotti immaginari’’, come i pretesi ‘’massacri’’ di Timisoara, o la campagna di disinformazione sulle armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein, e sia le macchinazioni reali, come quelle fomentate dalla CIA, per esempio col colpo di stato in Cile nel 1973 o col programma di armamento dei talebani in Afghanistan.
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Journalisme contre complotisme : des imprécateurs qui se prennent pour des pédagogues
di Henri Maler
(Acrimed.org)
Che si tratti della visione cospirazionista globale della società e della storia oppure del micro-complottismo che si diffonde in occasione di avvenimenti particolari, sono numerose, molto numerose, le opere di analisi sociale o quelle di giornalisti che si impegnano a smontarli e a spiegare come nascono e chi li inventa e li propaga.
Ma sono rare, troppo rare, le inchieste giornalistiche che, non nei libri, ma sui grandi media, non si limitano a denunciare dei ‘’cervelli malati’’ e tentano invece di rispondere agli argomenti ritenuti ‘’cospirazionisti’’ rivolgendosi all’ ampio pubblico di coloro che dubitano. E le spiegazioni giornalistiche, quando ci sono, sono diffuse da media la cui audience resta comunque limitata.
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Il complotto degli increduli
In vari paesi larghi settori dell’ opinione pubblica – per lo meno quella che i sondaggi pensano di riflettere – confessano la loro incredulità nei confronti delle spiegazioni fornite o accreditate dai media dominanti: dall’ attacco di Pearl Harbour nel dicembre 1941 agli attentati dell’ 11 settembre 2011, dall’ assassinio di Kennedy alla morte di Lady Diana, per non ricordarne che alcuni.
Quella opinione pubblica è una costruzione artificiale dei sondaggi stessi, che aggregano delle risposte diverse: una opinione che non si manifesta affatto in quanto tale al di fuori di questi sondaggi, che non forniscono quindi, nell’ ipotesi più favorevole, altro che indici. Ma di cosa?
– L’ incredulità si nutre prima di tutto di una sfiducia generalizzata nei confronti delle informazioni fornite dai media, nei confronti dei giornalisti e delle informazioni che essi diffondono, una sfiducia di cui essi fanno le spese, anche se questi media e questi giornalisti non sono responsabili o, almeno, non sono i soli responsabili.
– L’ incredulità poggia sulla convinzione secondo cui è dietro le apparenze che conviene cercare la verità ,  anche a costo di attribuire a delle azioni concertate di individui o istituzioni quello che nasce invece da logiche sociali e politiche senza le quali queste azioni, quando esistono, sarebbero inefficaci.
– L’ incredulità può infine trovare la sua fonte anche nel ricordo di precedenti sgradevoli: delle ‘’macchinazioni’’ di tutti i tipi che i media hanno combattuto quando erano vere e che hanno invece accreditato quando erano inventate.
Che si tratti, dunque, di ‘’complotti immaginari’’: i pretesi ‘’massacri’’ di Timisoara, il presunto ‘Piano a ferro di cavallo’’, attribuito a Milosevich, destinato a ‘’ripulire’’ il Kossovo da tutta la popolazione albanofona, la campagna di disinformazione sull’ esistenza di presunte armi di distruzioni di massa sotterrate nel deserto irakeno da Saddam Hussein, ecc. O che si tratti di macchinazioni reali, fomentate o sostenute dalla CIA soprattutto: il colpo in Iran nel 1953, il colpo di stato in Cile nel 1973, il programma di armamento dei talebani in Afghanistan a partire dal 1979, il finanziamento illegale dei contras nicaraguegni nel corso degli anni ’80, ecc.
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La disfatta del giornalismo
 Che fanno i media per combattere l’ incredulità che li colpisce e che colpisce, nello stesso tempo, le informazioni che essi diffondono, anche quando sono verificate?
– Condannare la sfiducia nei confronti dei grandi media senza capirla, rispondere ai dubbi, anche quelli fondati, fornendo delle certezze assolute, squalificare qualsiasi critica ai media assimilandola a una sorta di paranoia cospirazionista: sono questi i peggiori servizi che si possa rendere al giornalismo stesso.
– Trattare l’ inquietudine insoddisfatta delle persone nei confronti delle apparenze come una colpevole ignoranza, attribuire loro delle inclinazioni cospirazioniste e valutarle dall’ alto in basso, da  tutta l’ altezza di cui sono capaci i pedagoghi che non parlano che a se stessi e disprezzano il popolo che pretendono di istruire: questi atteggiamenti nascono da una concezione del giornalismo la cui arroganza è pari alla sua impotenza quando trasforma delle persone dubbiose in un popolo di cospirazionisti.
– Sminuire l’ esistenza di cospirazioni reali o la diffusione di ‘’complotti immaginari’’ inventati dalle istituzioni politiche e dai loro servizi, mentre queste azioni o queste menzogne di Stato inducono a nutrire dei legittimi sospetti, significa alimentare quello che si condanna: la ricerca di complotti nascosti che sono spesso immaginari.
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(…) Ai ‘’maniaci del complotto’’ rispondono troppo spesso, nello spazio mediatico, i maniaci del ‘’complottismo’’, che non solo ne amalgano tutte le forme, ma le attribuiscono generosamente a delle posizioni che non sono affatto cospirazioniste. Ora, vedere del cospirazionismo dappertutto impedisce ai giornalisti di farvi fronte quando si verificano davvero. E se si aggiunge che non basta scoprire dei processi cospirativi per contrastarli (come mostra il caso di Alain Soral (intellettuale antisemita che ricorre spesso alla teoria della ‘’cospirazione ebraica’’, ndr), le pretese inchieste monolitiche sul cospirazionismo (come quella di  Daniel Leconte e Philippe Val), rappresentano la disfatta del giornalismo d’ inchiesta.
Contro queste sconfitte del giornalismo, un solo rimedio: un po’ meno imprecazioni e un po’ più di giornalismo!