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Libri / Il giornalismo fra rivoluzioni e continuità

Dalmasso(f. d.) – Fu vera rivoluzione quella digitale? Solo i posteri potranno dare una risposta a questa domanda, visto che il cambiamento messo in atto dalla digitalizzazione della comunicazione è un processo tuttora in corso e, apparentemente, senza fine. A cercare di tracciare i binari lungo i quali muoversi per capire cosa sia davvero la digitalizzazione della comunicazione arriva il libro di Gabriele Balbi e Paolo Magaudda, Storia dei media digitali. Rivoluzioni e continuità, uscito da poco per Laterza con una interessante prefazione firmata da Peppino Ortoleva.

 

 

Il libro scritto dai due studiosi – Gabriele Balbi è professore assistente in Media Studies presso l’ Università della Svizzera italiana di Lugano, dove insegna e svolge ricerche sulla storia e sociologia dei media, mentre Paolo Magaudda è sociologo presso l’ Università di Padova, dove svolge ricerche sul rapporto tra tecnologie, cultura e società, con particolare riferimento ai media e alla comunicazione – ripercorre la storia socio-culturale dei tre media che usiamo quotidianamente e che, nel giornalismo, stanno soppiantando sempre più il classico kit penna – block notes, cioè computer, Internet e telefono mobile. Attraverso l’ evoluzione di questi tre strumenti, gli autori riescono a tratteggiare i cambiamenti avvenuti su quella che Ortoleva definisce “merce – non merce”, cioè l’ informazione. Una storia che inevitabilmente ha coinvolto anche il mondo del giornalismo, un mondo che era rimasto apparentemente simile a sé stesso a lungo, ma che è stato rivoluzionato (nel bene e nel male) da alcune innovazioni digitali.

 

Internet 2.0

 

Come fanno notare i due autori, la cosiddetta fase sociale o 2.0 di Internet ha scardinato profondamente alcune delle caratteristiche storiche e consolidate del web. Un cambiamento che ha conosciuto diverse tappe, dall’ introduzione dei primi programmi di gestione e immagazzinamento dei documenti fino all’ integrazione tra scrittura, lettura e Internet e il successivo convergere tra forme tradizionali di stampa e dispositivi digitali. Dispositivi che, come si può facilmente notare, cercano di superare la carta stampata come mezzo di lettura facendo gridare periodicamente alla imminente morte dei giornali su carta. Una morte più volte annunciata, ma, di fatto, sempre rinviata, come accade con la fine del mondo per alcuni gruppi religiosi che, smentiti dalla realtà dei fatti, non fanno altro che posticipare l’ apocalisse globale.

 

Citizen journalism

 

Ma anche se non ci troviamo di fronte all’apocalisse della carta stampata, sarebbe assurdo e poco intelligente negare o minimizzare i cambiamenti che il digitale ha portato con sé nel mondo del giornalismo: anche se le prime avvisaglie di quello che sarebbe potuto accadere ci furono già nella seconda metà degli anni ’90, con la diffusione dei blog, buona parte dei giornalisti “tradizionali” ha pensato che quella della rete fosse solo una moda passeggera e che tutto sarebbe rimasto come prima. Previsione ovviamente smentita soprattutto con la comparsa del cosiddetto citizen journalism, fenomeno discusso e a tratti discutibile, ma che di fatto ha scardinato alcune delle prerogative sulle quali i giornalisti basavano la propria professione.
Reale partecipazione?

 

Partecipazione, condivisione e fine dei ruoli prefissati: il web 2.0 e il citizen journalism hanno trasformato il lettore da soggetto passivo a soggetto attivo, vero e proprio attore sulla scena giornalistica. I blog prima, Facebook e Twitter poi, hanno garantito a tutti la possibilità di trasformarsi non solo in fonte di notizie, ma in veri e propri mass media giornalistici. Ma proprio su quel “tutti” gli autori di Storia dei media digitali. Rivoluzioni e continuità invitano a riflettere: secondo la teoria di Nielsen, o participation inequality, infatti, il 90% degli utenti usufruisce dei contenuti web passivamente, il 9% partecipa moderatamente e l’1% in maniera intensiva. E spesso la partecipazione si limita a un like o un post minimo.

 

Questo significa che la partecipazione degli utenti, bandiera del web 2.0, è in parte da ridimensionare, così come il concetto di citizen journalism, secondo cui tutti possono fare i giornalisti. Un altro aspetto da considerare, infatti, è sempre la qualità delle informazioni che vengono rilasciate sul web.
Quale futuro?

 

Ma la qualità è spesso una caratteristica che, secondo la logica di un certo neo-giornalismo digitale, è sacrificabile sull’altare della velocità e dell’ esserci a tutti i costi: una sorta di ossessione che accomuna fruitori (sempre e comunque connessi) e professionisti della comunicazione.

 

Quale sarà il futuro di questo scenario? Rivoluzioni e continuità, come dicono i due autori.

 

Nel giornalismo sarà quindi un evolversi verso nuove forme di comunicazione, in grado di sfruttare al meglio le future tecnologie, senza dimenticare, però, la tradizione e la continuità con il vero giornalismo, fatto cioè di qualità, serietà e autorevolezza. L’acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, potrebbe essere l’esempio di questa commistione tra rivoluzione e continuità? Ai posteri l’ardua sentenza.

 

 

Gabriele Balbi, Paolo Magaudda

Storia dei media digitali. Rivoluzioni e continuità

Editori Laterza, 2014

208 pagine, 20 euro