Il punto sul giornalismo

Marco Dal Pozzo autore di “1news2cents la qualità costa! un modello sociale per l’editoria (online)” appassionato di giornalismo e informazione, nostro associato in Lsdi e sodale in #digit, oggi recensisce il libro del giornalista televisivo Paolo Pagliaro che si intitola “Il Punto”. Buona lettura!

Eli Pariser, alla fine del saggio che ha fatto luce – forse per la prima volta a livello “mainstream” – sul funzionamento delle piattaforme sociali online, dava qualche indicazione su come difendersi dagli “attacchi dell’algoritmo”: ai singoli individui Pariser raccomandava di modificare la propria dieta online (per esempio: cancellare i cookie, acquisire conoscenze in materia informatica – secondo un mantra che, nello stesso anno di pubblicazione di “The Filter Bubble” , il 2012, formulava Douglas Rushkoff nel suo “Programma o sarai programmato”; alle aziende di dare trasparenza; ai Governi di formulare delle norme. Il saggio guardava alle piattaforme di condivisione (Facebook), ricerca (Google) e acquisto (Amazon), ma affrontava anche il problema dell’informazione: partendo da un famoso “statement” di Zuckerberg (“Uno scoiattolo che muore davanti casa vostra può essere più interessante per voi delle persone che muoiono in Africa”), faceva emergere il problema del “tunnel cognitivo” costruito dagli algoritmi quando, nella quotidiana vita online, propinano l’interessante a scapito dell’importante.

 

 

Paolo Pagliaro, con l’esperienza di ulteriori cinque anni, in un libro che riprende il nome della rubrica che cura su la7 nella trasmissione “Otto e mezzo”, “Punto” , si può dire ampli l’analisi dell’attivista americano con qualche caso di studio e alcune semplici buone pratiche, scattando una foto sullo stato dell’ecosistema informativo.

 

 

Cosa è avvenuto in questi cinque anni?

 

 

No, non è di adesso la storia delle fake news: “i contenuti che leggiamo adesso sulle bacheche online sono gli stessi che un tempo si trovavano sulle pareti dei bagni pubblici. Ma non ricordo che allora i giornali considerassero rilevante l’opinione di quel particolare popolo, né che i suoi graffiti fossero consultati e recensiti come termometro degli umori correnti”, ( dice Pagliaro in apertura ). Di adesso sono i marchi, “fake news”, ma anche “post-verità”, che hanno reso riconoscibile un fenomeno che esiste da sempre; di adesso è anche uno degli eventi che in tanti associano al fenomeno, l’elezione di Trump

 

(la tesi del giornalista bolzanino sullo specifico argomento è semplice: non sono state le fake news a far vincere Trump; di sicuro le fake news non lo hanno danneggiato come invece è stato per la Clinton. Sono stati i giornalisti a non aver preso sul serio quello che Trump stava costruendo e a non aver saputo raccontare quello che poi si sarebbe materializzato nella sua inaspettata elezione a Presidente). La questione – si diceva – è vecchia ed ha precise cause. Quelle che Pagliaro cerca di indagare e poi presentare con una carrellata di documenti (dati, storie di notizie e di smentite) e di pareri di esperti.

 

 

“La post-verità – argomenta Pagliaro entrando nel vivo – non è una cosa che riguarda solo la rete, né solo l’informazione. Riguarda in primo luogo la politica, il suo linguaggio e la sua etica. Le bugie della politica sono un impasto di affermazioni, silenzi e mezze verità, come tutte le bugie. Ma godono del privilegio dell’impunità poiché legittimate dal consenso degli elettori”. Il problema, però – prosegue così l’analisi – diventa serio quando, a farsi dinamo di questo meccanismo, intervengono gli stessi agenti che dovrebbero invece arginare il fenomeno.

Cosa succede?

 

 

Primo,sintetizza Pagliaro: smette di esistere l’analisi approfondita (“si fa in modo che smetta”, forse sarebbe meglio metterla in questi termini) a vantaggio della sfida sanguinosa tra rivali, rendendo così l’elettorato sempre peggio informato e intemperante (riporta l’autore citando Robert Franck e Philip Cook in The Winner-take-All Society);

 

 

Secondo: la realtà viene descritta solo con le categorie usate dai politici e il loro linguaggio; infine: si favoriscono i populismi che – quasi per la necessità di rassicurare il proprio pubblico, elettori per i politici e ascoltatori/lettori per i mezzi di informazione, che altrimenti sarebbe solo bombardato da notizie negative, tanto “false” quanto poco tranquillizzanti – “promettono soluzioni semplici a problemi complessi”.

 

 

Come succede?In un ecosistema in cui tutti i media coesistono e si alimentano a vicenda uno dei fattori scatenanti, dice Pagliaro riportando la tesi di Walter Quattrociocchi nel suo How Does Misinformation Spread Online, è il narcisismo, soprattutto quello che porta a diventare online ciò che non si è, ma che piace (nel senso proprio del “like”) agli altri. Un altro è la disintermediazione, che “in politica significa il trionfo della demagogia, e nell’informazione il trionfo della spontaneità spesso irresponsabile”.

 

Perché succede? Perché, sull’altare di un profitto (di voti per i politici e di ascolti per gli editori), occorre conquistare l’attenzione, bene prezioso in un ecosistema sempre più inquinato. Come meglio poter prendere voti e ascolti se non raccontando una realtà semplificata, offrendo soluzioni pronte all’uso; ottenendo, poi, come effetto collaterale, il rafforzamento – con false notizie – dei propri pregiudizi cognitivi, “anche quando – così Pagliaro citando ancora Quattrociocchi – è possibile dimostrare che certe notizie sono false”.

 

Quando succede? Quando il carico informativo e di contenuti, diventa insostenibile (ecosistema inquinato, si diceva). Un aspetto, questo, che Pagliaro esamina fornendo al lettore degli spunti molto interessanti: vengono citati Jorge Luis Borges, il futurologo Toffler e il sociologo Gross e i più attuali Eric Shmidt e Eco, con un implicito invito all’approfondimento.

 

 

Come uscirne? Il messaggio di Pagliaro è un messaggio positivo: se ne può uscire percorrendo una strada che, più che su norme da scrivere, passa attraverso un’autoregolamentazione degli attori coinvolti: agli editori Pagliaro suggerisce di investire in informazione di qualità (scelta che può rivelarsi vincente anche da un punto di vista economico); ai lettori – dopo aver presentato le soluzioni di Howard Rheingold di mettere un funzione un “crap detector”; di Pierre Lévy di rivedere il rapporto con la conoscenza contemplando i limiti propri di ciò che è parziale e provvisorio; di Nicholas Carr di staccarsi un po’ dalla tecnologia – consiglia una fruizione più consapevole dei contenuti incoraggiando quel minimo di senso critico necessario a capire – per esempio – la provenienza di una notizia.

 

 

Ecco, in sintesi, il “Punto” di Paolo Pagliaro. Un testo che può essere, per il pubblico “generalista” al quale è evidentemente destinato, una utile chiave per iniziare a comprendere e tentare di combattere – non senza la necessità di approfondire i tanti spunti in esso inclusi dall’autore – un fenomeno che sta seriamente minacciando la tenuta sociale e la crescita delle comunità.

 

 

Marco Dal Pozzo