Oltre la crisi: le proposte dei giornalisti (sg)

La chiusura, purtroppo per certi versi, definitiva, degli Stati generali dell’editoria voluti dal Governo giallo-verde, si è consumata il 4 luglio scorso, a partire dalle ore 10, presso la nuova aula dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati. Era un giovedì e c’era parecchio caldo. Perdonate l’ironia. Ma sembrano davvero passati eoni, non mesi, da quel giorno. Nel frattempo un Governo è caduto, ne è subentrato un altro con una diversa maggioranza (che di già vacilla e barcolla parecchio assai, se ci è permessa una notina polemica), ma soprattutto il mondo del giornalismo e dell’editoria italiana, è ritornato nel marasma più totale, senza che l’apertura decisa,  voluta dal Governo precedente, e i conseguenti incontri degli Stati generali, abbiano lasciato una traccia, anche minima, sul comparto. Magari sbagliamo, ma questa è la percezione dal nostro osservatorio. Vedremo. I segnali per il momento non sono buoni,  purtroppo. Gli intrecci tra i vari mondi che compongono il settore, appena appena accennati, durante le consultazioni degli Stati generali, stanno già scemando. La fase finale del percorso di conoscenza e confronto è venuta meno prima ancora  di cominciare con la crisi di Governo. Del convegno di ottobre a Torino,  per tirare le fila della narrazione e formulare una concreta proposta di riforma,  si sono perse le tracce, anche perché,  calendario alla mano, ottobre è già finito da almeno una decina di giorni. Quindi?  Forse in fondo a questo nostro ultimo pezzo di rendicontazione degli Stati generali proveremo a rispondere alla domanda, o almeno proveremo a formulare qualche proposta. Intanto veniamo al racconto dell’incontro che ha posto la pietra tombale sugli Stati generali e che si intitolava: “Oltre la crisi: le proposte dei giornalisti per cambiare passo”.  Dopo l’introduzione ai lavori dell’allora Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con delega all’informazione e all’editoria, Vito Crimi,  prevedeva l’intervento  di  Alberto Puliafito – Giornalista, scrittore e Direttore “Slow News”, di Daniele Nalbone – Giornalista, scrittore e Responsabile web di  “Paese Sera” e di Marco Gambaro –Professore di Economia e industria dei media Università Statale di Milano; ed era come sempre moderato dal capo Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Ferruccio Sepe.

 

 

L’introduzione

 

 

Vito Crimi: La crisi del settore non può essere affrontata con una visione corporativistica. Perché nel momento in cui gli editori riescono ad avere un modello di business che consenta loro di stare in piedi, allora ci sono giornalisti che possono lavorare per questi editori e nel momento in cui ci sono i giornalisti c’è il prodotto editoriale, c’è qualcuno che lo può distribuire, c’è qualcuno che lo può vendere, c’è qualcuno che può vendere la pubblicità. Questo è un sistema che va visto nella sua interezza. Se c’è una crisi, come avviene in tutti i settori industriali, lo Stato deve fare la sua parte,  per consentire che questa crisi venga superata,  cercando di ridurre il danno. Però nessuno deve pensare che lo Stato debba sostituirsi integralmente al mercato.

 

 

Ferruccio Sepe: Non abbiamo visto la luce all’orizzonte durante questi colloqui.  Abbiamo capito che ci sono idee diverse. Anche in Europa continuano a cercare strumenti per garantire il pluralismo.  Sappiamo che da solo il mercato non basterà, ma sappiamo altresì che non sarà lo Stato a poterlo sostituire in maniera integrale. Siamo in una terra di mezzo,  cioè in quella zona ancora in cui sappiamo cosa non sarà più, ma non sappiamo ancora cosa ci aspetta.

 

 

I relatori

 

 

Daniele Nalbone:  E’ venuta meno la fiducia nei giornalisti e nei giornali da parte delle persone.   Questa è una cosa con la quale dobbiamo necessariamente iniziare a confrontarci. Se le persone cercano notizie al di fuori degli organi di informazione,  evidentemente, c’è un problema in questo Paese. Possiamo chiamarlo, in negativo, un declino culturale; possiamo dirlo in positivo: c’è un tentativo di andare oltre la coltre dell’informazione mediata che da sempre abbiamo in questo Paese.

L’informazione è diventata una commodity.  Quello che noi leggiamo tutti i giorni sui siti d’informazione è la stessa identica cosa su ogni giornale allo stesso momento.  Non c’è null’altro di diverso. Oggi i siti di informazione sono discariche di link. I piani editoriali prevedono cento, centocinquanta link al giorno,  non c’è una gerarchia, non c’è un approfondimento, non c’è uno studio dietro la produzione che viene fatta di questi di questi articoli, soprattutto su quella che poi è l’interfaccia,  la piazza del Paese cioè i social network.  Se scopriamo una qualsiasi delle bacheche che ci troviamo davanti, o delle pagine, vediamo un flusso continuo di notizie che non hanno né capo né coda. Questa roba qui ha distrutto la professione. Questo è il modello di business nel quale ci muoviamo.  Tutti corriamo nello stesso identico momento per la stessa identica notizia. Quindi adesso la colpa è di Facebook e Google se il settore è in crisi? Dovremmo essere noi giornalisti a pagare Google. Perché i piani editoriali, i modelli di business sono tutti incentrati sull’indicizzazione che ci dà comunque Google. Se Google chiude i rubinetti,  chiudono i giornali. E se la sfida deve essere quella di trovarci a creare un contraltare a Facebook e Google fatto da noi, stiamo parlando di due realtà che hanno i soldi per scatenare una guerra nucleare in questo mondo.  E noi vogliamo fare la guerra con gli strumenti che abbiamo a queste realtà? O vogliamo cominciare a provare a creare dei prodotti editoriali che recuperino la fiducia dei lettori e smetterla con questi modelli di business folli?

Il risultato è quello di aver riempito le redazioni non più dei giornalisti ma di web content editor cioè di persone che si trovano a fare dieci, quindici, venti articoli ogni giorno, copiati da una parte e dall’altra, per farli piovere sui motori di ricerca, sui social network. E la cosa ancora più grave è che queste persone sono pagate, quando va bene, mille euro al mese. Per me la soluzione è solo e soltanto all’interno del sindacato non fuori. Per capire qual è la situazione nella quale si trovano a lavorare i giornalisti. Cominciamo a farci delle domande. Se un sito dal nulla comincia a fare cinquecentomila utenti unici al giorno sulle classifiche,  domandiamoci ma chi ci lavora dentro quel sito, chi lo sta mettendo in piedi? Oppure è tutto normale che dal nulla nascano siti che fanno cinquecentomila visite, facendo cento-centocinquanta articoli. E poi chi li produce, non vediamo nessun articolo firmato, nell’80% dei casi sono siglati redazione. Che cos’è quella roba lì ? Il ruolo del giornalista oggi di fronte al declino culturale, non solo di questo Paese, ma proprio dell’intera Società,  è assolutamente importante, ancora più importante.

Slow journalism non è un prodotto, ma un metodo. Ci siamo dati tre regole,   l’informazione deve essere: buona, giusta e pulita. Il click non ha nulla a che vedere con  questa informazione. Il successo di un giornale non può e non deve essere giudicato soltanto in base ai picchi di traffico.  Poi se ne vogliamo semplicemente che questi diventino spazi pubblicitari possiamo fare altro,  a quel punto non c’è bisogno di fare un giornale. Le mie proposte sono molto semplici.  Capire la situazione reale sui posti di lavoro, realizzare assemblee aperte all’interno delle sedi territoriali del sindacato. Assemblee aperte a tutti soprattutto ai lavoratori Uspi, e alle partite IVA,  e trovare nuove forme di rappresentanza. Un cdr in ogni redazione. I contributi pubblici dovrebbero essere spesi anche su progetti di ricerca e sperimentazione nel giornalismo (vedere cosa sta accadendo in Europa con i  Google Dni). Introduciamo degli sgravi,  prevedendo nuove forme di lavoro,  regolamentati all’interno delle aziende editoriali.  Dove il lavoro non è più soltanto scrivere e pubblicare l’articolo,  ma comprende anche, ad esempio, la gestione dei social o la creazione di video. Senza qualità sul posto di lavoro,  non ci può essere qualità nel lavoro che viene prodotto. Nessuno sul posto di lavoro ci ha insegnato a fare questa professione. Non c’è stato scambio di competenze e cultura tra grandi ed esperti giornalisti e giovani giornalisti che entravano nelle redazioni.

 

 

Alberto Puliafito: Mi capita ancora molto spesso di sentire che esiste una differenza tra la carta e il digitale.  Differenza che a mio modo di vedere non esiste,  ed è frutto di un madornale equivoco. Esiste il giornalismo e poi esistono canali attraverso i quali questo giornalismo viene diffuso. Molti analisti chiamano  il contesto in cui viviamo: content-shock. Cosa vuol dire content-shock? Significa che in un minuto viene prodotto e pubblicato talmente tanto contenuto online che non ci basterebbe una giornata intera per consumarlo,  e questa condizione è incrementale. Tende a crescere non a ridursi. E noi giornalisti e tutto il comparto della stampa,  abbiamo interpretato questo dato decidendo di essere sempre più veloci e di produrre una quantità sempre maggiore di notizie e di personalizzarle. Che è il terreno dei social. Quello di  cui possiamo essere assolutamente certi è che se ci preoccupiamo di inseguire Facebook sul suo terreno. Un terreno fatto di quantità, di velocità e di personalizzazione, possiamo essere abbastanza certi che quella battaglia la perderemo. Sono poco convinto della possibilità di trovare un nuovo modello di business che valga per tutti. Mi sono trovato a quaranta anni a capire che da giornalista dovevo studiare anche come si fa una start-up,  dovevo studiare marketing e strategie di comunicazione, dovevo studiare gestione aziendale, e tutta una serie di altre cose che mai avrei pensato. Perché tutto sommato volevo solo fare il giornalista.

Il mio lavoro come direttore responsabile di Blogo non era fare grande giornalismo,  ma era stare tutta la giornata di fronte al mio monitor, con quel bellissimo strumento che si chiama Google Analytics che ti fa vedere il traffico in tempo reale,  mettersi lì e cercare di portare più traffico sul sito. Portare più traffico sul sito vuol dire molto spesso fare i titoli accattivanti, forzare la notizia, cercare di dare delle interpretazioni che poi puoi giocarti sui social, così le persone cliccano,  e vuol dire soprattutto dimenticarsi completamente che là fuori ci sono degli esseri umani, delle persone. La prima cosa che possiamo fare come giornalisti e ricordarci che il nostro lavoro è un lavoro al servizio di qualcuno che non è l’ inserzionista. Se si chiede alle persone di quali argomenti vorreste che parlassimo questa settimana?  Ci sono alcune start-up in Inghilterra, in Olanda, in Danimarca, che lo fanno;  le risposte non sono: vogliamo che si parli più di gossip o di intrattenimento.  Si scoprono cose interessanti ascoltando i lettori. Naturalmente per farlo hai bisogno di concentrati sulla qualità e non sulla quantità. Mi sono trovato a cercare di capire che cosa vuol dire costruire un brand, e tutti quelli bravi che lavorano nel mondo del marketing dicono che il brand non lo decidi tu.   Non sei tu editore, tu giornalista a dire : questa è la mia testata, questo è il mio brand, e questi sono i suoi valori. Tu puoi fare quella dichiarazione, dichiarare i valori,  ma poi il brand è quello che decidono le persone là fuori. Credo fortemente in un modello che che si chiama: membership, e non è un caso se quelli che lo adottano usano il termine membership e non il termine subscription,  cioè abbonamenti. Il membro di una community è qualcosa di più importante, ed è su quello che bisogna lavorare. La nostra potrebbe essere davvero un’età dell’oro del giornalismo,  perché mai come in questo momento, quando tutti possono produrre contenuti di qualunque genere, c’è bisogno di giornalisti. Sono sempre più convinto che ce ne sarà sempre più bisogno anche in futuro. Non è una speranza,  è una convinzione. La sfida è riuscire a trovare il modo per rendere questo giornalismo al servizio delle persone davvero sostenibile.

 

 

 

Marco Gambaro:  Online, soprattutto se guardiamo all’informazione giornalistica,  non abbiamo nulla che somiglia a una redazione. Ci sono informazioni, ma non c’è,  non si è creato un mezzo direttamente sostitutivo. Uno strumento che fa il lavoro che prima faceva un telegiornale, o un quotidiano.  Questa è una cosa su cui riflettere. Quando l’informazione è disponibile così facilmente diventa una commodity e se è disponibile dappertutto il prezzo scende a zero. E comunque l’interesse decade. Non è una questione di abitudine a pagare.  Semplicemente se è disponibile, le persone, quello che è disponibile lo prendono senza dubbio.

Non esiste un business model valido per tutti e non esisterà mai, ogni impresa editoriale dovrà trovare il proprio. E’ in corso una ridefinizione dell’informazione giornalistica. Questa è una cosa che nei paesi che hanno i quotidiani popolari è già stata discussa trenta quarant’anni fa e ora è stata metabolizzata.  Noi abbiamo ancora questo problema.  Definire il confine dell’informazione non vuol dire che tutta l’informazione è uguale. Vuol dire fare attenzione a tutto, anche a quelle cose che ci fanno tanto schifo (gossip, gattini, morbosità varie).  Significa  guardare cosa interessa ai nostri lettori -  che dovrebbero essere al centro delle nostre riflessioni – significa tenere conto di  pezzi di informazione,  non l’unica forse, ma che fanno parte  del loro modo (dei lettori)  di essere in relazione con la società.

Oggi, le organizzazioni parlano direttamente con il loro target, si direbbe nel marketing. Con i loro clienti potenziali, con i clienti lettori.  E non solo le organizzazioni commerciali ma i politici, le istituzioni, le aziende, tutti. Una parte rilevante dell’informazione è fatta direttamente dalle fonti  con strumenti di comunicazione diretta (disintermediata). La disintermediazione estromette gli intermediari. Che erano intermediari non solo perché selezionavano bene le notizie,  perché erano esperti,  ma anche perché avevano il controllo esclusivo delle tecnologie per farlo. Ci dovranno essere giornali e redazioni,  perché sono le redazioni che trasformano le tante notizie disponibili in un flusso organizzato e selezionato,  ed è quel lavoro lì che ci interessa. Quello che può essere pensato sono forme di sostegno a supporto di riconversione. Che aiutano le aziende a passare da quello che c’era prima a quello che ci sarà dopo e che non sappiamo cosa sarà. Quindi forme di sostegno flessibili e continuamente aggiornate e aggiornabili. Accompagnare la digitalizzazione può essere importante, può essere utile. Una riflessione sulla piattaforme andrà fatta,  e individuare forme che consentano a queste piattaforme di continuare a fare le cose che hanno fatto,  che hanno arricchito e dato valore ai consumatori,  ma allo stesso tempo limitato le esternalità negative, quindi senza ipotetici divieti, ma costruire meccanismi – anche questi un po’ da inventare – di gestione dello “strabordamento” delle piattaforme di cui comunque nei prossimi anni dovremo preoccuparci.

 

Gli interventi del pubblico

 

 

Paolo Perrucchini Presidente associazione stampa  lombarda: Gli uffici stampa per potersi chiamare così devono avere al loro interno,  nelle loro organizzazioni, giornalisti professionali. Giornalisti quindi iscritti agli ordini.  Dovrebbero essere inquadrati con contratti giornalistici,  sia negli uffici privati,  sia negli uffici pubblici. Poi è necessario valorizzare la qualità l’informazione,  educare le persone.  Allora magari anche il Governo potrebbe farsi carico di un progetto per quanto riguarda il mondo dell’istruzione e prevedere un’ora di educazione all’informazione un progetto che potrebbe essere inserito nel recupero dell’educazione civica per esempio.

 

 

 

Vito Crimi:  Io vorrei ricordare qui in questa sede,  che i famosi centodieci milioni di euro del fallimento dell’Unità sono stati pagati dallo Stato.  Sapete con quei 110 milioni come risanavamo le casse dell’Inpgi e tante altre cose. I debiti fatti da un partito per un proprio giornale sono stati pagati dallo Stato questa è una cosa vergognosa.

 

 

 

Pierluigi Franz presidente sindacato cronisti romani:  L’Inpgi è un unicum nel parco del panorama previdenziale italiano. Lo ha detto la Cassazione in sezioni unite con sentenza 19497 del 2008. Questo unicum molti politici l’hanno dimenticato.  Perché è l’ unico ente previdenziale italiano privatizzato sostitutivo dell’INPS che si accolla in gran parte il costo degli ammortizzatori sociali e totalmente i contributi figurativi sugli ammortizzatori sociali. Questa è una cosa incredibile perché lo Stato non rimborsa questi costi che hanno avuto per i giornalisti un peso enorme.  Questo fatto nasce dalla legge del ministro del lavoro Rubinacci la numero 1564 del 20 dicembre 1951 tuttora in vigore. La legge prevedeva che gli editori erano tenuti a pagare la stessa percentuale di contributi che avrebbero pagato tutte le aziende all’INPS. Questa percentuale è stata sempre,  fino a tre quattro anni fa,  inferiore di sette otto punti e questo ha portato un miliardo di euro in meno nelle casse dell’Inpgi  in 65 anni. Questi sono dati ufficiali ma non se ne parla mai. Allora poi è chiaro che i conti finiscono in una tragedia con la crisi dell’editoria di questi ultimi anni che ha portato allo svuotamento delle redazioni.

L’Inpgi paga i contributi figurativi sulla disoccupazione,  sulla cassa integrazione, sulla solidarietà, sulla mobilità,  sulla maternità, sul servizio militare. Un altro aspetto importante da un punto di vista economico per la categoria riguarda l’articolo 31 dello Statuto dei lavoratori, molte volte dimenticato. Noi abbiamo,  come categoria,  moltissimi rappresentanti alla Camera, al Senato, al Parlamento europeo. Tutte queste contribuzioni figurative dei parlamentari si aggiungono al vitalizio.  Nei talk show televisivi non si ricorda mai, quando è stato proposto di tagliare il vitalizio, non si dice mai che comunque c’è una pensione in aggiunta al vitalizio,  e che questa pensione,  per quanto riguarda i giornalisti,  la paga l’Inpgi  e con costi altissimi. Perché molte volte sono giornalisti che hanno di partenza delle retribuzioni molto elevate. Quando un’azienda fallisce e mette in liquidazione,  l’Inpgi non incassa nulla.  Inoltre è tenuta a corrispondere i contributi figurativi a tutti i giornalisti di quell’azienda anche se non ha incassato un euro.  Lo Stato all’INPS rimborsa tutto in questi casi, mentre all’Inpgi per identiche procedure, non arriva niente. Decine e decine di milioni di euro che non vengono mai rimborsati e finiscono poi nel divario dei conti. Quindi è necessario un tavolo specifico sul tema presso la Presidenza del Consiglio perché di argomenti e di questioni da affrontare ce ne sono tante.

 

 

Assunta Currà vice presidente gruppo giornalisti uffici stampa: Gli uffici stampa devono avere dei giornalisti. Mettiamo a fuoco la legge 150 del 2000,  mettiamo a fuoco soprattutto i concorsi con cui uno accede ad un posto di ufficio stampa in una organizzazione pubblica. L’ufficio stampa deve essere sganciato,  deve essere selezionato con dei criteri che valgono a livello nazionale, con dei criteri chiari e a quel punto l’ufficio stampa può davvero pensare a quello che è il suo lavoro. Negli uffici stampa bisogna che gli addetti stampa, i capo ufficio stampa, siano assolutamente sganciati dalla figura di portavoce e di pr.

 

 

Fabio Morabito giornalista: L’applicazione della legge 416 è costata un’enormità allo Stato e all’ Inpgi, non si è aiutato il giornalismo e i giornalisti, è stata una sovvenzione sul costo del lavoro ai grandi editori.  Io penso che sia stata dimenticata la grande rete della piccola informazione italiana,  fatta di 1300 emittenti televisive locali. Una rete che ha bisogno di molto di meno per vivere. E invece sono stati finanziati in questi anni giornali fantasma. Quando si chiede allo Stato di aiutare il giornalismo non serve solo un sostegno economico. Servono leggi. Il primo intervento normativo dovrebbe essere l’abolizione dei contratti co.co.co nel giornalismo. L’abolizione dello sfruttamento. Aiutare le parti sociali per combattere il precariato.

 

 

Paola Scarsi Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti: Adeguare la legge centocinquanta anche agli uffici stampa privati in modo che anche le aziende private debbano assumere per quel ruolo giornalisti regolarmente  iscritti all’ordine professionale.

 

 

Enrico Campagnoli presidente della federazione italiana giornalisti pubblicisti: Marconi pochi mesi prima di morire disse al Chicago tribune una cosa che vista oggi sembra una profezia: “sino adesso poche persone via radio trasmettono a tutti verrà un giorno in cui  ogni persona trasmetterà a tutti gli altri e viceversa”. Il giorno, quei giorni sono arrivati.

 

 

Angelo Baiguini Consiglio Nazionale dell’Ordine: L’Ordine dei Giornalisti,  anche se magari si potrà chiamare con un altro nome,  ha una sua funzione. Le carte deontologiche che si è dato autonomamente,  sono i fondamenti della nostra professione. Perché le regole di come si scrive su un giornale, non ce le può dare il Governo,  e non ce le può dare nessun altro,  altrimenti si chiamerebbe censura. Noi ci siamo dati delle regole e dobbiamo essere in grado di rispettarle. E’ chiaro che oggi l’Ordine così com’è  non risponde più alle nostre esigenze e va riformato.

 

 

 

Antonello Giuseppe Bianchi pubblicista tecnico informatico: Mi sono reso conto e penso che sia ormai  una nozione abbastanza diffusa,  che la popolazione,  le persone, i non tecnici, non erano e non sono ancora pronti per internet. La tecnologia ci sopravanza mediamente e quei pochi tecnici che sanno usarla alla fine condizionano l’uso di internet. Piattaforme come Facebook, Google e quant’altro vengono utilizzate in modo improprio perché non c’è la cultura dell’utilizzo. Con l’introduzione del  5g cambierà molto anche il modo in cui la la rete verrà utilizzata. Samsung ha detto fra cinque anni nessuno utilizzerà più smartphone, perché ci saranno modi per utilizzare la rete, quindi la comunicazione, quindi la fruibilità delle tecnologie delle informazioni, completamente diversi.

 

 

 

Pierangelo Maurizio tg5: Google e Facebook sono i principali artefici dello svuotamento della nostra professione. Repubblica nel 1994 vendeva ottocentomila copie oggi ne vende circa centocinquantamila e non è  perché Repubblica sia peggio di prima. Non c’è più bisogno di comprare i giornali. Basta che vai sul motore di ricerca. Questo è stato lo svuotamento della nostra professione, rispetto al quale non è stato messo nessun fermo. Alcuni signori, quattro cinque, sei soggetti,  si sono arricchiti come credo poche volte o mai nella storia dell’Umanità. Sono signori che non pagano le tasse. Vogliamo far pagare le tasse a questi signori ? Ecco qui interviene lo Stato, sottosegretario Crimi,  perché ormai non si torna indietro da questo processo. E non credo che la soluzione possa essere quella del Corriere della Sera che propone abbonamenti a 1 euro. Non è quella la strada.  Credo che la strada sia quella di un intervento pubblico statale regolatore: cari signori pagate le tasse. E poi bisognerà trovare un modo per ridistribuire le risorse.

 

Lazzaro Pappagallo segretario Stampa Romana: A nome del sindacato chiedo al Governo di intervenire su alcune questioni che riguardano la categoria dei giornalisti:  Equo compenso. Esodati. Querele temerarie.

Il Governo deve avere un ruolo di regia industriale,  utilizzando i soldi che ha in campo e ha in pancia. Utilizziamoli non per distruggere lavoro,  ma per creare lavoro. Per darli alle assunzioni dei giovani,  non utilizziamoli per i prepensionamenti. E’ meglio avere giornalisti che si specializzano nel fare alcune cose,  nel farle bene quelle cose, è necessario avere un redattore ordinario nelle aziende editoriali o un social media manager giornalista che parla ai colleghi e parla alla gente tramite social e tramite le piattaforme e tramite il sito? Il mio pubblico di riferimento lo voglio ascoltare sì o no?  Come giornalista ho l’ambizione di parlare a tutti sì o no? Cerco di creare un contenuto che parli a tutti si o no? E se devo poterlo fare,  devo essere io in quanto sovrano nella mia professione a farlo, e per poterlo fare forse la figura del giornalista indistinto generico non basta più. Servono giornalisti qualificati e altre figure professionali da inserire nella nostra categoria.

 

 

Daniela Stigliano giornalista Oggi: Io ho rifiutato come componente della Giunta della FNSI di firmare il contratto Uspi.  L’ennesimo contratto che toglieva non solo soldi ma soprattutto diritti ai colleghi. Avere tre contratti è una follia. Avere un contratto che doveva nascere per l’online delle piccole aziende  – quelle proprio che avevano bisogno – e che ora si sta applicando ad aziende come City news e a Fanpage,  che in base agli ultimi dati pubblicati da Prima Comunicazione sono le prime due aziende editoriali italiane per total digital audience a maggio 2019.  Allora noi stiamo dando a dei concorrenti dei giornali di carta,  che ancora oggi garantiscono la maggior parte dell’occupazione, insieme agli altri media tradizionali. Noi gli stiamo dando uno sconto. Non va bene, non è solo uno sconto. Le retribuzioni non arrivano ai nove euro l’ora. Credo di aver dato l’idea. Ma è soprattutto un contratto, come l’Aeranti Corallo, che toglie diritti ai giornalisti.

 

 

Rita Palumbo vice presidente Ferpi: Dobbiamo mettere un punto fermo e non avere più contrapposizione tra le due professioni: giornalista e comunicatore.  Professioni che proprio la digitalizzazione mette insieme e fa in modo che, fermo restando una legittima differenziazione tra le due, perché il giornalismo ha obiettivi di scopo precisi e la comunicazione ha diversi obiettivi di scopo.  Mentre la prima è un bene pubblico e un diritto costituzionale, la nostra invece è una utile intermediazione di terzi di interessi privati,  ma è fonte di sviluppo del nostro Paese. Con la digitalizzazione, con le nuove professioni,  non possiamo dividere assolutamente questo due professioni,  che invece devono camminare su strade parallele,  che spesso,  come se fossero dei binari delle stazioni,  si intersecano. Apriamo un tavolo permanente sulle nuove professioni. Siamo due professioni diverse ma che si devono parlare per lo sviluppo di entrambe,  per la sopravvivenza di entrambe, per trovare modelli di dignità sia nella valorizzazione economica sia nella previdenza.

 

 

 

Cristiana Cimmino sindaco supplente Inpgi: Se crolla l’Inpgi crolla la libertà di stampa di questo Paese.  Non andiamo dicendo: ma sì passiamo all’INPS, già siamo una categoria asservita, con questo ultimo passaggio lo saremo completamente. Non è vero che i giornalisti non servono più e che il nostro pensare non serve più.  Anzi il ruolo del giornalismo sarà sempre più importante. Perché in questa marea di disinformazione non controllata e gratuita noi dovremo servire da spartiacque.

 

 

Luca Streri movimento mezzopieno:  Il movimento mezzopieno ha lanciato una proposta.  Fare in tutte le  scuole un’ora di comunicazione gentile. Ricominciamo dai ragazzi,  dai bambini,  educhiamoli a capire cosa stanno leggendo,  in tutte le varie forme: social, giornali, radio, tv, quello che è più vicino a loro. Educhiamoli a capire e saper distinguere chi sta scrivendo per loro e chi sta scrivendo per un editore in modo prezzolato e con finalità diverse dal fare informazione.

Portiamo questa cosa anche nel mondo del giornalismo.  I giornalisti devono ricordarsi che stanno scrivendo per un pubblico.  Gli editori devono lavorare per il proprio pubblico, per il benessere della società.  La Società ha bisogno di un giornalismo che l’aiuti ad essere migliore. La nostra proposta è questa: adottare un protocollo per l’ informazione positiva nazionale redatto da un gruppo di esperti nella comunicazione,  nel benessere sociale, e nella società civile, che definisca le linee guida e i parametri di classificazione condivisi delle notizie positivo. Per questo chiediamo al Governo di prevedere un meccanismo di equiparazione dei contributi all’editoria che incentivi l’attuazione di questo principio.

 

 

Piergiorgio Severini sindacato giornalisti delle Marche: Vorrei parlare di come sono stati impiegati i denari del fondo per il pluralismo dell’informazione,  per quel che riguarda l’emittenza locale.  Nel  2016 sono stati messi in campo dallo Stato qualcosa come 190 milioni di euro circa. Ecco questi 190 milioni di euro avranno generato si e no,   qualche decina di assunzioni, ed è un cosa inconcepibile. Non è possibile. Col denaro pubblico,  quanto meno,  bisogna intervenire su una questione sociale,  che è pubblica, e che è appunto quella di garantire alle radio e alle televisioni  il lavoro dei  giornalisti delle redazioni, professionalmente, e soprattutto,  dignitosamente pagati. Bisogna creare un percorso,  una clausola di destinazione,  in cui si dice che gli stipendi devono essere pagati, devono essere erogati con quei contributi. Non permettere, che con i contributi,  gli editori raddoppino il proprio fatturato e di conseguenza i loro utili di bilancio, che finiscono nelle tasche dei padroni delle aziende. E’ assolutamente inutile regalare soldi agli editori.

 

 

Simona Fossati consigliere di amministrazione fondo complementare dei giornalisti: Noi chiediamo l’ eliminazione per legge dei co.co.co.. Non esiste che ci siano migliaia di co.co.co. mono  committenti,  cioè che collaborano con un unico editore,  con un unico giornale e con la richiesta dell’esclusiva, senza avere nessun tipo di tutela. Non sono dei semplici co.co.co. sono chiaramente degli articoli uno o due del nostro contratto nazionale di lavoro. Quindi ci vorrebbero degli incentivi da parte del Governo per incrementare e incentivare la stabilizzazione di questi co.co.co. La commissione equo compenso, su quella noi riponiamo moltissima fiducia,  perché si potrà finalmente stabilire per legge diritti e doveri e compensi professionali della categoria. Se io sono un editore e posso usufruire di un esercito di schiavi ma perché dovrei tenere dei giornalisti assunti? Non avrebbe senso. Bisogna porre un freno a tutto questo,  porre un freno allo schiavismo oggi in corso per tutti i liberi professionisti dell’informazione.

 

 

 

Simona Cangelosi   odg lazio: Io sono una giornalista con partita IVA,  lavoro in RAI e anche al Corriere della Sera.  Come partita Iva non mi viene applicato il contratto giornalistico. Nel servizio pubblico ci sono duecentocinquanta,  quasi 300 persone nella mia stessa condizione, che significa emettere una fattura di mille euro al mese,  che viene pagata a novanta giorni. Però si deve  lavorare tutti i giorni, fare più di otto ore al giorno, e non avere comunque la disoccupazione e tutti gli altri diritti: ferie, malattie, maternità. Non abbiamo un contratto giornalistico e chiediamo stabilità. Questa magari è l’occasione giusta per chiedere l’apertura di un tavolo tecnico,  perché sono anni che si parla di avere una stabilizzazione però ancora non è successo nulla.

 

 

Conclusioni

 

Vito Crimi conclusioni: Il finanziamento all’editoria va cambiato,  ho detto questo fin dall’ inizio, l’avete detto tutti. Tutti avete detto che effettivamente va rivisto perché il sistema non funziona.  E allora pensate che si potesse lasciare invariato e arrivare di nuovo a fine anno all’approvazione della legge di bilancio e non essendoci il tempo per discuterne prorogare la legge così com’è, come accade da anni, senza poi intervenire.  E’ così che funziona in Italia, ha sempre funzionato così. Noi abbiamo dato un taglio, e adesso tutti hanno fretta.

L’Inpgi  è l’ unica cassa previdenziale che oggi va a sostituire integralmente l’Inps in  una serie di azioni. E questo ha comportato che l’Inpgi sia stata per certi versi utilizzata da alcuni editori come cassa per poter ridurre i costi del lavoro, quando semplicemente volevano fare una riorganizzazione interna. Questi sono gravi  peccati. Quindi prima ancora di ragionare di salvare l’Inpgi bisognerebbe ci fosse una presa d’atto degli errori fatti da chi ha gestito l’Inpgi. Una presa d’atto dall’avere ritardato di dieci anni l’avvio del metodo contributivo, diversamente dagli altri enti, la gestione del patrimonio immobiliare, pensioni fuori scala. Ci sono alcune pensioni, non moltissime, ma talmente fuori scala che non dovrebbero nemmeno esistere. Per non parlare del fatto che i pensionati poi tornano a lavorare nei giornali e tolgono il posto a un giovane.

 

 

 

Le nostre suggestioni

 

Daniele Nalbone:

I piani editoriali, i modelli di business sono tutti incentrati sull’indicizzazione che ci dà comunque Google. Lo diciamo da tempo, e qui ci piace sottolinearlo per l’ennesima volta. L’idea che il mondo sia costruito ad uso e consumo di un player privato, che certamente non è interessato a riplasmare il globo terraqueo al proprio volere, (troppo lavoro e troppo complicato) ma a fare profitto, è così assurda da diventare terribilmente probabile, financo vera. Facciamo molta attenzione. Alla fine i signori delle Ott la faranno propria,  per davvero. E allora saranno dolori.

 

Bisogna ripensare il ruolo del giornalista o forse meglio, come diceva, soltanto (spero si colga l’ironia) dieci anni fa, Clay Shirky:

 

La società non ha bisogno di giornali. Ciò di cui abbiamo bisogno è il giornalismo

Per i prossimi decenni, il giornalismo sarà costituito da casi speciali sovrapposti. Molti di questi modelli faranno affidamento sui dilettanti come ricercatori e scrittori. Molti di questi modelli si baseranno su sponsorizzazioni o sovvenzioni o donazioni invece di ricavi. Molti di questi modelli si baseranno su bambini eccitabili di 14 anni che distribuiscono i risultati. Molti di questi modelli falliranno. Nessuno esperimento sostituirà ciò che stiamo perdendo con la scomparsa delle notizie sulla carta, ma nel tempo, la raccolta di nuovi esperimenti che funzionano potrebbe darci il giornalismo di cui abbiamo bisogno.

 

 

I contributi pubblici dovrebbero essere spesi anche su progetti di ricerca e sperimentazione nel giornalismo (vedere cosa sta accadendo in Europa con i  Google Dni) già, aggiungiamo noi,  cosa sta succedendo?  Nalbone lo dice in positivo,  noi ci permettiamo di essere un tantino più scettici,  visto anche le nostre specifiche analisi in proposito. L’impressione nostra, ma anche abbastanza diffusa fra gli addetti ai lavori,  è che i munifici finanziamenti di Google per il giornalismo di ricerca europeo, non abbiano generato poi così tante meraviglie. I soldi sono andati dove dovevano andare. Ma di progetti rivoluzionari non se ne sente molto parlare. Eppure con 150 milioni di euro all’anno per tre anni e successivi (a  quanto pare si prosegue)  si salvavano e si potranno salvare in futuro,  diverse Inpgi e svariate testate giornalistiche, nonchè posti di lavoro nel settore.  Facciamoci una domanda e chiediamo a Marzullo una risposta, magari ce la trova.

 

Alberto Puliafito:

Si scoprono cose interessanti ascoltando i lettori. (puliafito) anche interagendo e collaborando con essi nel rispetto degli specifici ruoli di ciascuno. Che significa anche, se qualcuno se ne fosse per caso dimenticato, tiriamo fuori dai nostri cassetti il metered paywall proposto eoni fa -  se pensiamo alla velocità del nostro mondo attuale -  da Jeff Jarvis. Oramai ci siamo, l’hanno capito quasi tutti. Si tratta di fare uno sforzo ulteriore. Il più grande e complesso, naturalmente. E provare a metterlo davvero in pratica. Vedrete che vi divertirete. Dateci retta.

 

 

Marco Gambaro:

Quando l’informazione è disponibile così facilmente diventa una commodity e se è disponibile dappertutto il prezzo scende a zero.

Oggi, le organizzazioni parlano direttamente con il loro target, si direbbe nel marketing. Con i loro clienti potenziali , con i clienti lettori.  E non solo le organizzazioni commerciali ma i politici, le istituzioni, le aziende, tutti.

La disintermediazione estromette gli intermediari. Che erano intermediari non solo perché selezionavano bene le notizie,  perché erano esperti,  ma anche perché avevano il controllo esclusivo delle tecnologie per farlo

 

 

Che altro dire? La maggior parte delle dichiarazioni dei giornalisti presenti in sala nel giorno della conferenza stanno lì a dimostrare senza ombra di dubbio quanto sia consistente la crisi in atto. Quanto sia profondo lo scollamento fra un ipotetico periodo dorato – mai esistito di fatto -  del giornalismo del passato, ed un presente non compreso, e che potrebbe davvero essere l’epoca d’oro della nostra professione. Ma purtroppo pare esserci in tutti,  poca, pochissima voglia,  di metterci impegno e comprendere le ragioni ultime del cambiamento in atto, facendosi così trovare realmente “parati alla bisogna”. Se poi ancora qualcuno avesse dei dubbi, si legga e rilegga fino allo sfinimento,  l’intervento della collega Simona Cangelosi,  che pone, a nostro avviso,  tutti gli accenti nei posti giusti di ogni vicenda passata, presente e futura di qualunque professione pensiamo sia stata, debba o dovrà essere il giornalismo.  Nel nostro Paese,  con o senza il Pubblico, con o senza dignità, con o senza rispetto, rischiando la vita o semplicemente provando a sopravvivere.