<%@LANGUAGE="VBSCRIPT"%> <% Dim Repeat1__numRows Dim Repeat1__index Repeat1__numRows = 8 Repeat1__index = 0 Recordset1_numRows = Recordset1_numRows + Repeat1__numRows %> LSDI: Dossier
home pagechi siamocerca
Uomini e fatti
Mediacritica
Censura
gIORNALI & pERIODICI
rADIO & tV
Televisione
iNTERNET
fOTOGIORNALISMO
Giornalisti e Giornalismi
bLOG
dICONO dI nOI
pubblicità
documentazione
Formazione
Deontologia & Leggi
Libri

appuntamenti


dossier
SEZIONE
AGGIORNATA

Dossier Tv: l'anomalia italiana

Dossier free-lance
L'altra metà delle redazioni

Dossier Venezuela


Siti utili
Edicole nel mondo

Italia

Internazionali

Stati Uniti

Federazione Nazionale Stampa Italiana

Poster di Bowling For Columbine
Il giornalismo tra ventate di ottimismo e incertezze continue

Le proprietà editoriali

Il percorso intrapreso finora, con passaggi dalla proprietà locale alle catene editoriali all’entrata in borsa, si è basato sulla crescita continuata del settore.L’ingresso in borsa ha fornito alle società dei media economie di ampia portata e contante da investire — per nuovi reporter, tipografie, giornali, stazioni Tv. In tal modo gruppi come Tribune, Times Mirror, Washington Post e altri avevano scommesso che, grazie ai lauti guadagni, sarebbero stati immuni da molte pressioni tipiche di Wall Street. Scommessa vinta solo per un certo periodo.
Pur nella trasformazione delle caratteristiche fondamentali dell’industria nello scorso decennio, tali aziende sono riuscite a far fronte al declino. Poi però la tesi per cui il giornalismo fosse qualcosa di più che un’attività imprenditoriale, che avesse a che fare con l’interesse pubblico, prese a sgretolarsi. Quel che non funzionava a livello economico, per dirla con modi semplici, non poteva essere più giustificato L’industria dei media non poteva più permetterselo.
A partire dal 2005, e accelerando nel 2006, sia i giornalisti che i manager e gli investitori hanno preso a chiedersi se il modello dominante di proprietà, la corporation pubblica, fosse ancora da preferire. E le ora le questioni non sono più soltanto di ordine morale. Aziende che avevano cavalcato l’onda della deregulation e del consolidamento, come Clear Channel, nel 2006 sono diventate private. Il gigante delle radio ha anche preso a disinvestire e a ridimensionarsi. I giornali stanno perdendo valore di mercato, e con percentuali incredibili. Il Minneapolis Star Tribune è stato venduta a un consorzio privato per metà del valore pagato da McClatchy otto anni prima. Il gruppo del New York Times ha svalutato il valore del Boston Globe del 40%. 
Quale modello sostituirà la corporation pubblica? Al momento non mancano i dubbi. Si parla del ricorso alla filantropia. Già oggi alcuni enti di beneficenza finanziano articoli specifici, talvolta con chiari intenti politici, pur se ancora non sono proprietari di testate. Le strutture private e alcuni ricchi individui si sono fatti più attivi, come il mogul del disco David Geffen, l’ex boss di General Electric Jack Welch e il magnate del mercato immobiliare Eli Broad. Ma guardando più attentamente, l’elenco è talmente diversificato che rappresenta l’incertezza, non una direzione.
Nel frattempo politici di tendenze liberal, come Michael Copps, membro della Federal Communication Commission, vogliono andare nella direzione opposta. Puntando non soltanto re-introdurre le regolamentazioni cancellate negli anni di Reagan (quali il limite alle proprietà e la norma della Fairness Doctrine & Equal Time), ma introdurre nuove misure restrittive, forse anche per la stampa.

L’unica cosa certa — oggi molto più di qualche anno fa — è che il concetto secondo cui la diversità delle corporation pubbliche sia la migliore a garantire capacità, risorse ed esperienza per gestire il futuro dei media non è più il vangelo. In tal senso, è l’idea del conglomerato mediatico che viene messa in discussione.

Vai indietro - Torna all'introduzione - Continua