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TV: l’anomalia italiana
I falsi (e veri) limiti della legge Gasparri
di Franco Debenedetti (Il Sole 24 ore, 14 dicembre 2004)
A un anno di distanza dal cruciale passaggio al Senato della legge Gasparri, sul riassetto del sistema televisivo, può essere utile rivisitarla nei punti che erano stati oggetto di più vivaci polemiche: Il SIC; il drenaggio di pubblicità a danno dei giornali; il digitale terrestre; la privatizzazione.
Il SIC.
La Gasparri considera il Sistema Integrato della Comunicazioni come una matrice: le righe sono le imprese che operano nei settori merceologici (stampa, editoria, Internet; radio e televisione; affissioni, sponsorizzazioni ecc ). Le colonne sono le attività (svolgimento del servizio pubblico, pubblicità, televendite, sponsorizzazioni, vendita di giornali, di biglietti dei cinema, di cassette). All’incrocio sta il fatturato di quell’impresa in quella attività. Non proprio un capolavoro di chiarezza: le righe sono definite all’art 2, le colonne all’art. 15, dove si parla di antitrust. Neppure un esempio di trasparenza: sull’entità del SIC giravano stime che andavano da 20 a 32 miliardi di euro, e il Ministro pervicacemente ignorava le richieste di indicare la stima del governo. Motivato il sospetto di aver creato un settore di ampiezza sterminata ed imprecisata, affinché il limite del 20% della quota di risorse che un operatore può conseguire perdesse ogni significato pratico. Mentre l’altro limite, quello numerico, il 20% del totale dei programmi TV, veniva a perdere anch’esso valore dato il loro ampliamento con il digitale terrestre.
I critici della legge non ebbero fiducia nell’efficacia dell’altro limite, quello ex post: il divieto di costituzione di posizione dominante sia nel sistema nel suo complesso, sia in ciascuno dei mercati che lo compongono (art. 14 comma 2 e 15 comma2). Divieto che pure è preciso nelle norme (quelle CEE), nella severità (si deve tener conto , oltre che dei ricavi, anche del livello di concorrenza, delle barriere di ingresso ecc.), nelle responsabilità (l’Autorità delle Comunicazioni), nelle sanzioni (quelle previste della legge Maccanico). Neppure si prestò molta attenzione al fatto che il divieto è della posizione dominante, anziché, come di solito, al suo abuso: una singolarità che potrebbe essere gravida di conseguenze.
Il limite invece sembra funzionare: l’Autorità delle Comunicazioni ha avviato l’accertamento delle posizioni dominanti, facendo proprio riferimento a tre criteri, indipendenti l’uno dall’altro, sul SIC, sui singoli mercati rilevanti, e sul limite del 20% delle risorse totali, sulla base di un’indagine preliminare che ha trovato indici presuntivi di posizione dominante in capo da RAI, RTI e Publitalia.
Certo, il giudizio sarà politico: è la legge istitutiva dell’Autorità, varata dal Governo dell’Ulivo a volere che i commissari siano nominati con criteri politici. Diventa essenziale, e bisogna esigerlo, che i nuovi Presidenti si segnalino per chiara autorevolezza e per riconosciuta indipendenza.
La pubblicità.
Si è sostenuto che, essendo passati dal limite del 30%, riferito al solo settore televisivo (previsto dalla precedente legge Maccanico), al tetto del 20% riferito al ben più ampio SIC (legge Gasparri), sarebbe aumentata la quantità di pubblicità che la televisione avrebbe drenato a danno della carta stampata. Ma questa tesi è illogica: un limite interno alla tv poteva bloccare le quote di un operatore televisivo rispetto agli altri operatori televisivi: non avrebbe mai potuto intervenire invece sulla ripartizione della pubblicità tra stampa e televisione.
Caso mai è proprio la Gasparri a mettere in comunicazione i due mercati, limitando al 20% le risorse che ogni operatore può conseguire.
Un altro tema spesso agitato è il supposto aumento degli spazi televisivi che la Gasparri avrebbe introdotto. In realtà la Gasparri ha scomputato de jure le telepromozioni che già prima non venivano de facto computate. Nulla è dunque cambiato sul mercato. Ed è da dubitare che anche una riduzione dell’affollamento (con probabile aumento dei prezzi della pubblicità tv) avrebbe effetti positivi per la stampa.
L’Antitrust ha concluso, il 16.11.2004, un’indagine sul mercato della raccolta pubblicitaria nel settore televisivo in cui ha evidenziato che anche modesti ma significativi e stabili aumenti di prezzo della pubblicità in televisione non determinano spostamento di fatturato in favore di altri mezzi. L’Autorità, inoltre, riconosce che esistono diversi mercati pubblicitari, con assetti diversi: piuttosto competitivo quella della pubblicità sulla carta stampata, concentrato quello della televisione, con Fininvest in posizione dominante. A diversa struttura corrisponde (l’Antitrust usa l’espressione "si lega") una asimmetrica ripartizione degli investimenti pubblicitari tra stampa e tv, caratteristica del nostro paese. L’argomento è accennato all’inizio del rapporto, e non più ripreso: tutto fa ritenere che quel "si lega" sia una semplice constatazione, e non la presunzione di un rapporto di causa ed effetto. Più logico mettere in relazione la preferenza degli inserzionisti italiani per la TV con la minore diffusione di giornali nel nostro paese, in particolare con l’assenza di grandi giornali popolari. La popolazione si è raddoppiata, il reddito decuplicato, l’alfabetizzazione è quasi totale: eppure, dopo mezzo secolo di democrazia, il numero di copie di quotidiani venduto oggi è più o meno lo stesso che durante il fascismo. Difficile sostenere che dipenda dal duopolio televisivo.
In ogni caso la struttura del mercato non ha limitato lo sviluppo del settore: gli investimenti pubblicitari sono aumentati (2004 su 1991) dell’89% in Italia, contro una media UK, Francia, Germania, Italia Spagna, del 53%; la loro incidenza sul PIL è aumentata in Italia (da 0,60 a 0,62%), mentre è diminuita in Europa (dallo 0,81 allo 0,79%).
Il digitale terrestre.
La diffusione del digitale terrestre è lo strumento con cui Mediaset scongiura il rischio di dover "mandare sul satellite" Rete4, per stare dentro il limite numerico del 20% delle reti nazionali posto dalla Corte Costituzionale. Il compito la Gasparri lo affida proprio alla RAI: doveva raggiungere il 50% della popolazione entro Gennaio 2004, il 70% un anno dopo. Per la legge basta che ci sia la "presenza" di decoder "a prezzi accessibili": Mediaset non vuole correre rischi.
Si è criticato il fatto che la partenza a tappe forzate avvantaggi RAI e Mediaset: si perpetuerà nel digitale il duopolio che domina nell’analogico. E’ però da rilevare che la legge 20 marzo 2001 n. 66 impone a chi è titolare di più di una concessione televisiva di riservare almeno il 40% della capacità trasmissiva di programmi e servizi a condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie, per la sperimentazione da parte di soggetti terzi. Aumenta la protezione per i due incumbent integrati verticalmente. Ma resta bassa la barriera all’ingresso per i newcomer che possono trasmettere propri programmi o palinsesti senza doversi costruire una rete.
La privatizzazione della RAI
E’ il giudizio più controverso: dipende se la privatizzazione viene vista come un male da evitare o un bene da perseguire, e, in tal caso, dal modello: una, due, tre reti. Lasciamo gli scenari improbabili e restiamo a quella vendita del 25-30% di azioni, che è la sola previsione realistica. La nomina del CdA, finora in capo ai Presidenti di Camera e Senato, passa a Governo e Parlamento: si elimina l’ambiguità di una impossibile terzietà. Nessun privato può avere più dell’1% di azioni, né fare patti di voto per più del 2%. A loro si assicurerà un rendimento costante, e si renderà impossibile la formazione di una maggioranza che esprima visioni strategiche. Il controllo da parte della maggioranza in Parlamento è assicurato e certo. Per questa strada a una RAI non proprietà dei partiti, a un’informazione pluralistica prodotta da un sistema di concorrenza tra operatori indipendenti, non ci si arriverà mai. Tant’è che c’è chi nella maggioranza e nell’opposizione obbietta anche a questa criticabilissima "privatizzazione".
La casa così accuratamente blindata ha però una porta che in teoria dà su un’autostrada. A partire dal Gennaio 2006 la RAI potrà vendere rami d’azienda (art. 21, comma 6). La decisione passa dunque dal Governo a questo composito CdA. E’ più facile o più difficile? A me pare evidente che i membri parlamentari del CdA non voteranno per levare al Parlamento un potere, e che i "privati", se gli si dà un rendimento discreto, saranno contrari a modifiche: tutto fa pensare che quella porta resterà chiusa. Ma è anche vero che solo una ferma volontà politica potrebbe privatizzare la RAI. E, se ci fosse davvero, la porta c’è.
Conclusione
Mediaset voleva chiudere la saga infinita di Rete 4: l’ha finalmente ottenuto.
Ha puntato tutto sull’obbiettivo a breve. Quanto a quello a lungo o non le interessa o non si è preoccupata delle conseguenze inintenzionali. Potrebbero essere importanti, alcune sono già visibili.
Il divieto di posizione dominante è potenzialmente più severo del limite quantitativo della Maccanico. Fino al 2011 non può fare acquisizioni nella carta stampata. La riserva del 40% del digitale terrestre apre la porta a una pluralità di concorrenti anche provvisti di limitate risorse finanziarie. La possibilità di trasmettere su tutto il territorio nazionale alle reti locali in syndication sta già dando risultati (Alerion e Telelombarida/Antenna, Telenorba in borsa). Sky che si espande, Telecom che compera i diritti del calcio, prefigurano una battaglia per le piattaforme dall’esito tutt’altro che scontato.
Resta l’assetto RAI. Che non si sa se definire più perverso, nell’impedire la privatizzazione, o più demenziale, nel blindare la casa e lasciare una porta apribile col maniglione antipanico. Quello che è sicuramente perverso è quel limite dell’1%, al possesso azionario, scolpito nel marmo, come le leggi de Medi e dei Persiani. Quello potevano risparmiarcelo.
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Oppure visualizza il contenuto del dossier: Emilio Rossi: la bandiera della privatizzazione è una resa all’auditel
L’ anomalia italiana e il digitale terrestre
di Marco Mele (Il Sole 24 ore)
La legge Gasparri
Il servizio pubblico nei principali paesi europei
La direttiva europea:
“Televisioni senza frontiere”
Nei collegamenti sulla destra di questa pagina troviamo una serie di documenti sulla situazione italiana, a partire dal discorso del presidente Ciampi del 13 dicembre (“qualunque sia l’assetto della televisione pubblica italiana, essa deve conservare, rafforzare, migliorare sempre di più la sua attività di servizio pubblico”), alla lettera di Enzo Biagi sulla privatizzazione della Rai, dagli articoli di Romano Prodi e Giovanni Sartori sul futuro della Rai alle posizioni “eccentriche” di Franco Debenedetti (“Servizio pubblico? Un’idea da preistoria”), fino alla risoluzione del Consiglio d’Europa (1387/2004) su “Monopolio dei media e possibile abuso di potere in Italia”
(Pino Rea.)
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