AA
di Maurizio Matteuzzi
da La rivista del manifesto
Maggio 2002
http://www.larivistadelmanifesto.it/archivio/28/28A20020505.html
Che qualcosa presto o tardi - più presto che tardi - sarebbe successo nel 'Venezuela bolivariano' di Hugo Chávez Frías era nell'aria. In pochi credevano che sarebbe riuscito a restare senza problemi al palazzo Miraflores di Caracas, la sede della presidenza, a cui era stato eletto con una valanga di consensi nel dicembre '98, fino al 2006 o tantomeno, in caso di un secondo mandato, fino al 2012. Ragione per cui il golpe dell'11 e 12 aprile non è stato una sorpresa, ma semmai lo è stato - eccome - il contro-golpe del 13 e 14 aprile.
Nel pieno del nuovo ordine mondiale e della globalizzazione il tempo dei golpe sembrava finito. Era stato ufficialmente dichiarato morto il fatidico 11 settembre 2001 dai ministri degli esteri delle Americhe, il segretario di stato Usa Colin Powell in testa, convocati a Lima per la firma della Carta democratica interamericana, nella quale si stigmatizzavano non solo i golpe militari vecchia maniera ma anche «le alterazioni incostituzionali dei regimi costituzionali». Che sarebbero state automaticamente condannate, con l'esclusione dall'Osa (l'Organizzazione degli stati americani) e l'imposizione di sanzioni.
A quel tempo Chávez era già marchiato. Per i gusti dominanti il cavallo pazzo di Caracas ne aveva già fatte e dette troppe, dentro e fuori il suo paese. L'amicizia con Fidel Castro e gli accordi petroliferi con Cuba del 2000; le visite a Baghdad e Teheran e Tripoli; l'opposizione all'Alca e al Plan Colombia; la posizione del Venezuela chávista nell'Opec.
Per George Bush ce n'era abbastanza. Il Venezuela è il quarto produttore mondiale di petrolio e la metà del suo export - fra i 2.6 e i 3.1 milioni di barili al giorno - finisce negli Stati Uniti, di cui è il terzo fornitore e copre il 13% del fabbisogno petrolifero. Ai primi di febbraio, Powell accusò Chávez di «non collaborare con la campagna internazionale contro il terrorismo», di «avere idee molto particolari sulla democrazia» e di avvicinarsi «troppo a regimi dispotici».
Le voci di golpe si rincorrevano in Venezuela e dall'inizio del 2002 erano cominciati i 'contatti', secondo il settimanale «Newsweek» e altre fonti, fra i settori golpisti venezuelani, civili e militari, e ambienti dell'amministrazione Usa (l'ambasciata a Caracas, il Dipartimento di Stato, la Cia , l'esilio anti-castrista cubano). Il golpe doveva scattare il 27 febbraio, ma poi fu rinviato.
Voci e 'contatti' favoriti dalla polarizzazione interna al paese. Dopo tre anni e mezzo di Chávez al potere il Venezuela era a un bivio. Da ogni punto di vista. La 'Rivoluzione bolivariana' non era stata con le mani in mano. L'economia, sostenuta dal rialzo dei prezzi del greggio, è cresciuta del 3.2% nel 2000 e del 2.7% nel 2001, in un contesto sfavorevole dal momento che l'America latina è bloccata a crescita praticamente zero nel biennio 2000-2001 (più 0.5%).
Ma la voragine aperta dai capitali venezuelani in fuga (21 miliardi di dollari l'anno, secondo l'Fmi) era sempre più drammatica, nonostante la retorica anti-liberista del caudillo di Caracas fosse sfociata nella 'piena ortodossia', a metà febbraio, con l'adozione di un programma di austerità fiscale, che sanciva la libera fluttuazione del bolívar e il drastico taglio del 22% del bilancio statale. Un passo salutato dal Fondo monetario internazionale come «il provvedimento nella direzione appropriata».
Chávez non perdeva occasione di presentare i risultati dei suoi primi tre anni di governo: riforma «bolivariana» dell'educazione, che ha riportato più di un milione di bambini a scuola; riduzione dal 18 al 13% della disoccupazione ufficiale; «vistosa» caduta dell'evasione fiscale; abbassamento della mortalità infantile dal 21 al 17 per mille.
Sul piano politico la situazione si faceva però sempre più tesa. Dopo avere spazzato via a suon di elezioni e referendum la vecchia «oligarchia putrefatta» - il duopolio socialdemocratico-socialcristiano di Acción democrática e del Copei, al potere dal '58 al '98 -, lo scontro con l'oligarchia economica si è rivelato assai più duro. I risultati nel campo della corruzione, della sicurezza e della povertà - che nel 'Venezuela saudita' ha raggiunto lo strabiliante picco dell'80-85% dei 24 milioni di venezuelani - tardavano ad apparire o erano troppo modesti. Si moltiplicavano le accuse e le rotture interne al Mvr chavista, il confuso Movimiento Quinta República di stampo nazional-populista.
Anche fra i militari cresceva il fermento e alcuni ufficiali si pronunciavano apertamente contro Chávez, reo di «politicizzare» le forze armate, di voler fare del Venezuela «un'altra Cuba», di avere stretto rapporti troppo amichevoli con i guerriglieri colombiani delle Farc.
Chávez era ormai in guerra aperta con tutti i poteri forti. L'imprenditoria, riunita in Fedecámaras, la confindustria locale, che Chávez accusava di «complotto e sovversione»; la Conferenza episcopale venezuelana, duramente critica e da lui liquidata come «un tumore nel processo della rivoluzione bolivariana»; parte dei vertici delle forze armate, molti dei quali laureati nella School of Americas di Fort Benning; i principali network privati della stampa scritta e radiotelevisiva, che sparavano ad alzo zero contro Chávez e che Chávez ricambiava, denunciandone il «terrorismo psicologico»; il sindacato tradizionale, Ctv, Confederación de Trabajadores de Venezuela, guidata da Carlos Ortega e Manuel Cova, legata al vecchio duopolio Ad-Copei; la Pdvsa , Petróleos de Venezuela, la vacca sacra da cui il paese trae l'80% delle sue entrate da esportazione, che Chávez in febbraio aveva tentato di mettere in riga, licenziando tutto lo staff dirigente e nominando al loro posto uomini più affidabili (o malleabili). Troppi nemici per una «rivoluzione pacifica».
La classe media commerciale e professionale scendeva per le vie di Caracas, con i suoi cacerolazos - come a Buenos Aires in dicembre - al grido di «Fuera el Loco». Il 10 dicembre l'inedita alleanza Fedecámaras-Ctv proclamava una prima giornata di paro. Era un fatto che la popolarità di Chávez era caduta a picco. Dall'80-90% del '99 al 25-35% di tre anni dopo.
Al di là delle bordate retoriche, la crisi è precipitata - e il golpe è arrivato - quando il focoso caudillo ha messo le mani su due tabù finora intoccabili. La proprietà privata della terra e la Pdvsa. Il 14 novembre del 2001 Chávez ha promulgato 49 decreti legge, che intaccano a fondo il potere economico costituito. La pietra dello scandalo sono due di quei decreti: la Ley de Tierras e la Ley de Hidrocarburos. Ossia una rifoma agraria, che prevede l'esproprio di terre «sotto-utilizzate» (in Venezuela, come in altri paesi dell'America latina, il 50% delle terre agricole appartiene all'1% di terratenientes) e un aumento delle royalities sul petrolio e la partecipazione nazionale al 51% nelle imprese del settore degli idrocarburi.
Pedro Carmona, il leader di Fedecámaras, parlava della «più grande confisca» nella storia del paese, e chiedeva l'immediata sospensione dei 49 decreti economici. «Non ci sarà alcuna transazione con gli squallidi esponenti di un'oligarchia putrida», era la risposta di Chávez. Poi fu la volta della Pdvsa, che il 25 febbraio ha aperto il conflitto contro «la politicizzazione» della compagnia. La produzione e la raffinazione del greggio caddero subito del 20%. Nelle strade si facevano sempre più frequenti e più aspri gli scontri e le manifestazioni fra chavisti e anti-chavisti, con l'attiva partecipazione dei controversi Circulos Bolivarianos, attivati da Chávez nel giugno 2001 e definiti da una parte «gli organismi di base del popolo di Bolívar» e dall'altra una milizia paramilitare dai metodi spicci.
Martedì 9 aprile il connubio Fedecámaras-Ctv ha lanciato un secondo paro di 48 ore, poi esteso «a oltranza». Il golpe era cominciato.
Giovedì 11 aprile una grande manifestazione di massa, guidata da Padro Carmona e da Carlos Ortega, si dirige prima verso la sede della Pdvsa e poi punta direttamente sul palazzo Miraflores. Per esigere «le dimissioni immediate di Chávez, in nome del popolo venezuelano», dice Carmona. Chávez vuole lanciare un appello in una catena nazionale di radio e Tv contro «i cospiratori e traditori», ma riesce ad apparire solo sugli schermi delle due emittenti statali, perché le private lo oscurano e continuano a trasmettere la diretta della marcia dell'opposizione. Con Chávez vanno in Tv anche i militari del Comando unificato delle forze armate, che leggono un comunicato in cui si riafferma la lealtà al presidente legittimo. Davanti a Miraflores, guardato dal Reggimento presidenziale, si sono radunati anche gli uomini dei Circulos Bolivarianos.
Si comincia a sparare e sul terreno restano almeno 17 morti (alla fine saranno in tutto una sessantina). Circolano video che mostrano come si sia sparato da tutte le parti. I morti in realtà fanno comodo a tutti. Ma i generali rifiutano di mandare i tank per strada e si schierano dalla parte di Carmona. Tre di loro si presentano nell'ufficio di Chávez a Miraflores e gli chiedono di dimettersi.
A questo punto le versioni restano (ancora) confuse. Sta di fatto che nella sera di giovedì 11 Chávez è arrestato e viene portato, in un primo momento, a Forte Tiuna, alla periferia di Caracas. Pedro Carmona entra subito dopo a Miraflores e, sulla base dell'assicurazione ricevuta dai militari, dice che Chávez si è dimesso, e assume la presidenza ad interim della repubblica. Si scatena la 'caccia al chavista'.
Il giorno dopo, venerdì 12, Carmona si insedia con il suo nuovo governo, mentre di Chávez si perdono le tracce e si teme per la sua vita. A Miraflores convoca una platea di invitati assai selezionata. Quello è il secondo o terzo errore fatale che il capo degli industriali - un economista sessantenne laureato alla Libera università di Bruxelles - commette. La cerimonia, trasmessa in diretta da tutte le Tv private, è uno choc: «sembrava quasi una seduta di Fedecámaras», scrive l'«Universal», pur furiosamente anti-chavista: industriali e terratenientes; vecchie facce conosciute della Ad e del Copei; l'Alto comando militare; il cardinale di Caracas Ignacio Velasco e il vescovo di Merida, monsignor Baltasar Porras, presidente della Conferenza episcopale; e anche, seppure un po' in disparte, i leaders della Ctv.
Il secondo errore di Carmona è il programma, corredato dai nomi impresentabili dei ministri del suo governo. Carmona legge gli 11 articoli dell'Atto di costituzione del governo di transizione e unità nazionale. Via l'Assemblea nazionale, via il Tribunale supremo di giustizia, via il Procuratore generale, via governatori e sindaci, ma soprattutto via i 49 decreti legge economici, via i nuovi dirigenti di Pdvsa, elezioni entro un anno e un Consiglio di Stato esecutivo di 35 persone, rappresentantive «della società civile». Tutti sottoscrivono, ma non la Ctv , che pure è presente ma già sente puzza di bruciato. Anche i 10 nuovi ministri, 4 militari e 6 civili, fanno discutere. Quello degli esteri è un uomo dell'ultra-conservatrice Opus dei; quello degli interni è un generale legato all'ex presidente del Copei, Rafael Caldera; il nuovo Procuratore generale, Daniel Romero, è il segretario particolare dell'ex presidente di Ad, Carlos Andrés Pérez.
Nelle strade e nelle caserme la situazione è incandescente. Qualcuno, dentro e fuori il paese, fa notare che se Chávez non si è dimesso, la presidenza doveva passare al suo vice, Diosdado Cabello, e in ogni caso un nuovo presidente avrebbe dovuto essere eletto dall'Assemblea nazionale. Che Carmona ha appena sciolto. Dall'esterno i riconoscimenti tardano a venire. I ministri degli esteri dei 19 paesi del Gruppo di Rio, riuniti a San José di Costa Rica, diffondono un comunicato in cui «condannano l'interruzione del processo costituzionale in Venezuela». La Unione europea è prudente, anche se il premier spagnolo Aznar già il venerdì ha telefonato a Carmona. Solo gli Stati Uniti traccheggiano e il portavoce della Casa bianca, Ari Fleischer, già il venerdì afferma che è stato Chávez «a provocare» la sua caduta, mentre il responsabile per l'emisfero occidentale del Dipartimento di Stato, il terrorista di nascita cubana Otto Reich, telefona anche lui un paio di volte a Carmona. Solo Cuba reagisce con estrema durezza e il «Granma» parla di «un golpe controrivoluzionario, padronale e dei ricchi».
Il sabato 13 i settori delle forze armate leali a Chávez si muovono. Dai ranchitos comincia a scendere «il popolo bolivariano», che punta verso il palazzo Miraflores. Le Tv private impongono un black-out totale. I generali ci ripensano. Non si doveva sciogliere l'Assemblea nazionale. Carmona allora la richiama in vita. Ma a quel punto è perduto. Chávez, che è stato confinato in una sperduta isola caraibica, ritorna e rientra, domenica prima dell'alba, a Miraflores. Carmona si dimette e viene posto agli arresti domiciliari.
Reinsediatosi, Chávez assicura pubblicamente di avere capito i suoi errori ed eccessi, propone «una grande dialogo nazionale» e la riconciliazione, invoca la mediazione della Chiesa, insedia il Consiglio federale di governo aperto a tutti i settori della società, scagiona in qualche misura Carmona («è stato manipolato, i responsabili veri sono altri»), dà garanzie agli Usa per il petrolio, elogia la posizione «degna» di Brasile, Messico, Argentina. Conclude teatralmente giurando di «rinfoderare la spada». Ma ammonisce anche che la Costituzione bolivariana non si tocca.
Chi c'era dietro il golpe? Gli americani con certezza sapevano e con probabiltà avevano dato luce verde. I cubani parlano delle «impronte di Otto Reich». È un fatto che forse il venerdì stesso e di certo il sabato mattina l'ambasciatore Usa a Caracas, Charles Shapiro, è andato a trovare Carmona a Miraflores. In compagnia di Manuel Viturro, l'ambasciatore spagnolo. La «France presse» scrive che «l'addetto militare americano in Venezuela la sera di giovedì 11 si è incontrato con i golpisti».
Non si sa cosa accadrà adesso in Venezuela. Il paese resta diviso in due (l'80% povero e il resto), le forze armate in tre (gli ultrà, i 'costituzionalisti', i 'chavisti'). Carmona, in varie interviste dopo l'arresto, nega di essere stato manipolato da Andrés Péres (che da New York parla di «auto-golpe») o da Washington; dice di non essere un «Pinochet light» ma un «democratico di centro», che lui voleva nominare un governo che andasse fino «alla sinistra moderata di Miquilena», con Carlos Ortega alla vicepresidenza, ma che è stato «tradito». I latino-americani, che non amano Chávez, tirano però un sospiro di sollievo, perché si sentono sempre più spesso ronzare nelle orecchie le vecchie parole del de te fabula narratur. Gli Stati Uniti ne escono peggio di tutti. Hanno firmato il documento di condanna dell'Osa solo il sabato, ma Bush resta minaccioso e dice di sperare che «Chávez abbia appreso la lezione».
Dal 2000 al 2002 quattro presidenti hanno gia dovuto dare forfait sotto la spinta della piazza - in Ecuador, Paraguay, Perù e Argentina. Spinta che non ha lasciato lo spazio, come in passato, a regimi militari ma non per questo è meno preoccupante per la stabilità della regione. Quest'anno si voterà in Brasile, Colombia, Bolivia ed Ecuador. È da vedere se il golpe-controgolpe del Venezuela giocherà a sfavore dei candidati «populisti» - a cominciare da Lula in Brasile -, come già si affannano a garantire gli opinion makers americani, o se invece si dimostrerà vero il contrario: che la strategia economica dominante e gli uomini chiamati ad applicarla non funzionano e hanno fallito.