Appendice 7

L'ultimo golpe

di Gianni Minà
Il manifesto
13 Maggio 2002

 

http://www.informationguerrilla.org/lultimo_golpe.htm

«Cercano un Pinochet per farmi fuori», aveva dichiarato recentemente il presidente venezuelano Hugo Chavez. Ed ha indovinato la previsione. Perché in un paese latinoamericano e ricco di petrolio come il Venezuela, il potere di un presidente della Federcameras, la Confindustria locale, che si è insediato al suo posto, dopo un golpe «democratico», può essere più contundente e definitivo di quello dell'esercito. D'altro canto, è vero che sono stati i colleghi militari dello stesso Chavez, ex tenente colonnello, a costringerlo alle dimissioni e ad accompagnarlo, su ordine del nuovo capo delle Forze armate, Efrain Vasquez, nella principale base militare di Caracas dove è detenuto, ma è anche vero che, fin dal dicembre scorso, eraPedro Carmona Estanga, il leader della potente Federcameras, a dirigere le operazioni che avrebbero dovuto, in breve tempo, atterrare questo caudillo populista che si rifaceva a Simon Bolivar e cercava in America Latina un modello economico alternativo a quello voluto dagli Stati Uniti. La defenestrazione di Chavez, eletto nel 1998 con un clamoroso plebiscito di voti ha molti padrini. In primo luogo l'oligarchia nazionale, ultimamente preoccupata per la «ley de tierras» che stabilisce che i latifondi con più di cinquemila ettari lasciati inoperosi dai proprietari possono essere confiscati ed assegnati ai piccoli contadini.

In secondo luogo i manager nazionali e internazionali delle industrie di idrocarburi, furibondi per la legge che stabiliva come l'estrazione e la prima lavorazione del petrolio poteva essere realizzata solo da società in cui lo stato avesse almeno il 51% del capitale. Per di più, alzando la tassazione sui guadagni che riguardavano le altre fasi. Erano tentativi dettati da realtà economiche medievali come quella dell'1% della popolazione proprietaria del 60% della terra coltivabile; o come quella di un paese forte di un passato agricolo notevole e ricchissimo di acque e di un clima invidiabile, costretto a importare il 75% delle derrate alimentari per una popolazione di 23 milioni di abitanti per l'80% poveri e con un tasso di disoccupazione del 15%. Il limite di Chavez che con tempra populista inviava l'esercito a fare lavori sociali per alleviare i problemi di prima necessità della popolazione, era quello di muoversi spesso come un elefante in un negozio di cristalli. E non mi riferisco tanto alla sua ostentata amicizia con Fidel Castro o alla sua dichiarazione di sostegno ai movimenti no-global che spaventavano molte false democrazie del continente latinoamericano, quanto ai suoi discorsi, al suo linguaggio che lasciava perplesso anche un intellettuale moderato come Carlos Fuentes, lo scrittore messicano che, su El Pais, ha scritto che «nella testa di Chavez c'era solo spazzatura e che il Venezuela era atteso da momenti molto difficili». Il Venezuela, infatti, era atteso da passaggi obbligati estremamente delicati, ma non tanto per Chavez, quanto per quella «maledizione del petrolio» che, magari, rende un presidente come Carlos Andres Peres uno degli uomini più ricchi del mondo, ma accompagna verso sciagure molti dei paesi sottosviluppati che hanno la ventura di avere in quantità la ricchezza dell'oro nero. Chavez ha decretato il suo attuale destino quando ha deciso di cambiare la politica del Venezuela sul petrolio non solo rifiutando l'uscita dall'Opec, ipotizzata

dai corrotti presidenti che lo avevano preceduto, ma si è battuto per la difesa del prezzo del petrolio e della sua stabilizzazione, portando proprio un connazionale, Alì Rodriguez alla presidenza dell'Organizzazione dei paesi produttori di idrocarburi. Sfrontatamente, a chi lo criticava per questa politica, rispondeva che «un barile di oro nero costa meno di una Coca Cola» e inoltre che «i paesi occidentali imponevano tasse del 50% mentre una parte importante dei prezzi finali al consumatore era dovuta agli esagerati guadagni degli intermediari». Queste scelte significavano contrastare l'attuale politica degli Stati Uniti sull'energia che va dalla guerra in Afghanistan (in futuro territorio di transito per i gasodotti provenienti dalle cinque repubbliche musulmane ex sovietiche come Tagichistan, Kazachistan, ecc.), al Plan Colombia deciso ufficialmente per contrastare il narcotraffico, ma in realtà voluto dal governo di Washington per controllare, anche militarmente, le risorse petrolifere (ma soprattutto l'enorme patrimonio biogenetico, unico al mondo) di nazioni come Colombia, Bolivia, Ecuador dove la presenza dei marines è più numerosa che in Afghanistan. Non a caso, la Comunità Europea che doveva essere coinvolta finanziariamente nell'operazione, ha declinato l'offerta giudicando il piano «eccessivamente militare».

La preoccupazione per quello che succede in Palestina ha offerto probabilmente l'occasione propizia per defenestrare il fastidioso Chavez senza tanti contraccolpi diplomatici. Un Chavez che non solo vendeva il petrolio a prezzi politici ai paesi caraibici, non solo diceva no all'Alca e sì al Mercosur nella lotta in corso in molti paesi dell'America Latina per affrancarsi dalle imposizioni dell'economia nordamericana e dalle ricette del Fondo monetario internazionale, ma aveva preso questa strada senza poter essere accusato delle solite nequizie dei militari al potere nel continente. Lo ha tradito, però, la sua demagogia, il suo esagerato populismo, l'involuzione autoritaria che il suo governo negli ultimi mesi stava prendendo per reagire agli attacchi della grande economia speculativa. Ma più di tutto lo ha atterrato l'illusione di poter fare una politica sconveniente agli Stati Uniti e alle multinazionali dell'energia.

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Dossier FNSI a cura di Pino Rea | Impaginazione e grafica Filippo Cioni